Ecco un movimento che sta crescendo veloce, velocissimo.
In italia ne e' stato fatto uno da poco, a Viareggio (o al Forte? non ricordo), dove mi sarebbe piaciuto partecipare, ma quando ho letto della presenza di Capezzone ho rinunciato.
In seguito ho saputo che il suo intervento non e' proprio piaciuto
Lo posto in questo thread di economia visto che e' un movimento nato sopratutto per intervenire in tal senso.
Un «tea» vale un manifesto.
Le origini del movimento popolare che contesta le politiche di spesa di Obama ma che è anche insoddisfatto dei repubblicani.
di Alberto Mingardi
“Noi americani comprendiamo la libertà. Ce la siamo guadagnata, abbiamo vissuto per essa, siamo morti per essa. Potremmo essere i missionari della libertà in un mondo roso dal dubbio. Ma prima dobbiamo rinnovare la missione della libertà nei nostri cuori e nelle nostre case”. Comincia così, con una citazione tratta dal discorso con cui Barry Goldwater accettò la nomination del Partito Repubblicano, Give Us Liberty: A Tea Party Manifesto di Dick Armey e Matt Kibbe. Armey, Congressman texano e uno degli autori del “Contratto con l’America” con cui i repubblicani conquistarono la maggioranza parlamentare nel 1994, dopo aver lasciato la politica ha assunto la presidenza di FreedomWorks, gruppo grassroots che Kibbe, economista di formazione, dirige.
FreedomWorks è attiva da una ventina di anni, ma ha conquistato la ribalta nazionale lo scorso 12 settembre, quando è stata il principale organizzatore di una manifestazione che ha visto mezzo milione di americani sfilare a Washington contro le politiche di spesa dell’Amministrazione Obama. È lo stesso “popolo” che, in una sfida non da poco, FreedomWorks e alcuni altre realtà (istituti di ricerca come la Heritage Foundation, siti web come Townhall, associazioni “di base” quali la National Taxpayers Union) cercano di mobilitare anche quest’anno. La “marcia su Washington” è stato il momento di maggiore visibilità di un movimento altrimenti decentralizzato e caotico: quello dei “Tea Party”. Raduni spontanei venuti sù come funghi dopo la pioggia di interventi che ha caratterizzato la fine dell’era Bush e l’inizio di quella Obama, i “Tea Party” sono stati ridotti a un cliché da parte dei mezzi d’informazione dell’establishment. La coda lunga di una destra rabbiosa e ignorante, “red America” al suo peggio, per alcuni persino un movimento para-razzista, che dietro la protesta politica maschera soltanto l’irritazione viscerale per il fatto che un uomo di colore sia finalmente entrato alla Casa Bianca.
Ma davvero i bevitori di thè non leggono? A giudicare da Amazon, parrebbe vero il contrario. È bastato che l’entertainer repubblicano Glenn Beck menzionasse nella sua trasmissione La via della schiavitù di Friedrich von Hayek per fare schizzare questo saggio pubblicato nel 1944 in cima alle classifiche di vendita. “Potete scommetterci che i Tea Partiers leggono”, scrivono Armey e Kibbe. A inizio anno era già uscito A New American Tea Party: The Counterrevolution Against Bailouts, Handouts, Reckless Spending, and More Taxes di John O’Hara (Illinois Policy Institute), seguito a ruota da The Tea Party Manifesto di Joseph Farah (editor del WorldNetDaily) ed alcuni altri titoli più pittoreschi. Lunedì sarà in libreria Boiling Mad: Inside Tea Party America di Kate Zernike, il primo volume scritto da una prospettiva “esterna” al movimento: Zernike è una giornalista del New York Times, e ha seguito il fenomeno accreditandosi come una reporter "fair" persino presso il pubblico più conservatore.
Su tutti, è il libro di Armey e Kibbe che segna una svolta. Si potrebbe dire che è una questione di ruolo: FreedomWorks è l’associazione che ha assunto una forma leadership, in questo movimento pure caotico e plurale. Tuttavia, Armey e Kibbe tutto vogliono fuorché indossare l’elmo del condottiero. Give Us Liberty è assieme un appassionato manifesto “liberista”, capace di presentare in modo semplice e lineare la teoria della scuola austriaca del ciclo economico piuttosto che la visione del processo politico sviluppata dagli economisti di public choice, e la ricostruzione della storia tumultuosa di come, nell’arco di poche settimane, si è passati da sporadici raduni di “dissenzienti” a un vero movimento politico di massa. Su tutte, sono due le caratteristiche degli autori che emergono. In primo luogo, un senso di profonda umiltà innanzi al “popolo americano”: il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, ed è una vigilanza che spetta a una società attenta e avvertita. Non sono i popoli a dover temere i propri governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli. È così che nascono le storie di eroi casuali, come Mary Rakovich, una nonna di cinquantatré anni con un passato di ingegnere elettronico nell’industria automobilista, che in Florida ha organizzato un po’ per gioco una delle prime proteste contro i bailout.
In seconda battuta, Armey e Kibbe si fanno portavoce di un profondo senso di insoddisfazione verso il partito repubblicano. Alla marcia di FreedomWorks, chiunque può partecipare - ma sul palco stanno soltanto, l’altr’anno come quest’anno, intellettuali ed esponenti politici che si sono opposti ai bail-out sin dal principio, quando recavano la firma di George W. Bush. Non c’era e non ci sarà Sarah Palin: e gli unici repubblicani che parleranno sono Mike Pence, l’organizzatore dell’opposizione parlamentare ai salvataggi, e l’ex governatore del New Mexico Johnson, noto come sostenitore della liberalizzazione delle droghe leggere.
Per Armey, è vita vissuta. Trent’anni di esperienza politica fra i repubblicani sono impietosamente riassunto così. Nonostante le vittorie della destra, “il triangolo di ferro formato da politici, burocrati, e dal network degli interessi particolari è stato rallentato nella sua marcia ma mai sconfitto”. I repubblicani al governo hanno dimostrato “quanto ampio possa essere il divario fra retorica e realtà”.
La speranza allora può venire solo da fuori dei partiti, e semmai bisogna lanciare “un’opa ostile” sul vecchio GOP. La libertà e la responsabilità individuale, i valori scolpiti nella Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio, sono più forti di quanto appaia. C’è tutto un popolo che vuole “controllare i controllori”.
Da Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2010