Se ci fosse il partito di Draghi, questo sarebbe il suo congresso fondativo e questi 1200 industriali in grisaglia, che si spellano le mani a ogni suo passaggio, i suoi delegati. Il partito del Pil”. Non è un grido d’allarme. Al contrario la frase è stata scritta con soddisfatto compiacimento in apertura dell’ articolo di commento all’Assemblea di Confindustria sul portale del quotidiano italiano che più si è distinto nell’apologetica draghiana. E purtroppo corrisponde a verità.balkan wolf ha scritto: ↑18/10/2021, 12:10Quale sarebbe la differenza tra "democrazia autoritaria" e fascismo?
I valori ovviamente. Il fascismo non è solo una forma di governo ma un impianto ideologico: per questo possiamo parlare di fascismo eterno alla Eco. La meloni e salvini, seppur inseriti in un sistema democratico, hanno valori fascisti.
Draghi seppur molto autoritario ha valori diversi, sostanzialmente quelli della società aperta che non coincidono minimamente con quelli fascisti.
Per fare un esempio lampante: il fascismo è tradizionalista la democrazia progressista ( in senso lato non in senso di “sinistra” ).
Ancora più banalmente il fascismo è sempre ferocemente reazionario la democrazia no.
Postilla personale
A me la democrazia fa schifo perché collettiva ed egalitarista e non per il suo impianto valoriale in se e per se. Sembra una contraddizione ma non lo è, o almeno non è una contraddizione insanabile.
Diciamo che in questa fase sono per una aristocrazia progressista da attuarsi ovviamente solo e soltanto con una feroce rivoluzione.
In effetti il 23 settembre, al Palazzetto dello sport di Roma, è nato il “partito unico dei padroni” intorno al suo leader massimo e indiscutibile, l’ex banchiere di Stato Mario Draghi. E nello stesso momento, con la proclamazione del medesimo a suo capo carismatico e titolare naturale di un Esecutivo sintetizzato nella sua persona, è stata annunciata la nuova forma di governo definibile come “Premierato Assoluto” (nulla di più lontano dal dettato costituzionale). L’evento è stato accolto dal coro bulgaro dei media (tutti quelli mainstream, TG di stato in testa, a far gara nell’abbinare le Ola dei confindustriali con gli abbracci degli atleti con tanto di dono della bicicletta, come dire denaro e muscoli uniti nell’applauso) ormai senza pudore nell’ostentare un culto della personalità degno di altri tempi. E accanto a loro la politica, anche qui senza quasi eccezioni, a invocare lunga vita al premierato dorato, se fosse possibile vita eterna, come nelle monarchie d’altri tempi…
Se valessero ancora le “regole auree” fissate dalla politologia novecentesca – mica quella marxista o socialdemocratica, ma la politologia liberaldemocratica, di orientamento comportamentista, egemone nell’area anglosassone – si dovrebbe dire che siamo fuori dal quadro democratico. In quel paradigma, infatti, la cifra di una democrazia sana, o comunque accettabile, stava nella netta separazione (in una effettiva “divisione del lavoro”, si diceva) tra i sottosistemi fondamentali: quello Politico, quello Economico e quello Culturale (ovvero Parlamento e Governo, Imprese e Banche, Informazione e Media). Quando uno di questi travalica la propria sfera e prende il controllo degli altri, si esce dai limiti dalla forma democratica: se la Politica pretende di annettersi Economia e Cultura si ha il “totalitarismo”, se l’Economia si compra Politica e Media si ha una abnorme variante di quello che Max Weber chiamò “patrimonialismo”, se la Cultura domina sugli altri due si ha una “teocrazia”. Il 23 settembre abbiamo avuto l’immagine plastica di questo cortocircuito malsano, che stava nell’aria, si percepiva da tempo, ma che mai era stato così materialmente visibile ed evidente.
Draghi
Non stupiscono in questo i 1200 imprenditori che facevano la Ola nel parterre del Palazzetto dello Sport (anche il genius loci qui conta): erano lì a incassare le cedole del loro investimento, fatto già nel 2018, immediatamente dopo i risultati delle elezioni politiche in teoria più destabilizzanti del secolo (nuovo), quando appunto la bandiera di Mario Draghi fu alzata contro l’esito delle urne, e continuò a essere agitata ad ogni tornante di questa tormentata legislatura, fino alla liquidazione dell’ultimo governo Conte. Il rito ricordava i Te Deum cantati nelle cattedrali di mezza Europa dopo il congresso di Vienna, con i vecchi sovrani e le loro aristocrazie di corte a celebrare l’avvenuta Restaurazione. E nemmeno coglie di sorpresa più di tanto(avremmo dovuto esserci preparati) il ruere in servitium quasi unanime del coro mediatico: si tratta appunto di organi di stampa quasi tutti proprietà di gruppi industriali e finanziari che Draghi l’hanno da sempre considerato “uno dei loro”, se non altro per il suo essersi distinto in quelle “privatizzazioni senza liberalizzazioni” (così le definisce, con felice espressione, Giulio Sapelli sulle neonate pagine cartacee di “Tpi”) che costituiscono il suo capolavoro da grande Commis d’Etat. Forse colpisce un po’ di più la velocità con cui i partiti, nella stragrande maggioranza, si sono affrettati a consumare la propria (terminale) cessione di sovranità, e a certificare così la propria crisi strutturale. Esempio di scuola di autolesionismo delle élites nella fase del loro strutturale declino. Perché è fin troppo evidente – anche un bambino lo capirebbe – che all’ombra di questo Premierato Assoluto, con un Capo onnidecidente e il resto che, come l’intendenza napoleonica, deve seguire, tutto ciò che sta al piano terra della cuspide del potere, in primo luogo il “sistema dei partiti” che la tradizione politologica vorrebbe essenziale cerniera e canale di comunicazione tra Società e Istituzioni, avvizzisce e marcisce.