Nel corso dell’ultimo anno i conti pubblici fuori controllo di alcuni Paesi UE hanno fatto temere pesanti conseguenze negative anche per la moneta unica. Inevitabilmente si è discusso sulla stessa ragion d’essere dell’euro, che è stato persino definito “una moneta bacata”. Pensato già nel 1992, è entrato nelle nostre tasche dieci anni più tardi, con la promessa di tenere fede a quattro impegni, meglio noti come parametri di Maastricht. Da quel momento a oggi, le grandi aspettative legate alla moneta unica hanno perso vigore. Se l’euro è apparso un esperimento di successo, nondimeno sono stati in molti (a cominciare da Martin Feldstein) a metterci in guardia contro il fatto che la vera cartina di tornasole, circa la riuscita o meno del tentativo di unificazione monetaria europea, si sarebbe avuta solo con la prima crisi.
Così, com’è vero che “moneta” viene da “monere”, ammonire, avvertire, l’andamento dell’euro oggi ci segnala che nell’Unione a 17 c’è disomogeneità economica e che - come sostiene il Direttore Mingardi:- «Ogni intervento emergenziale di fatto è un intervento redistributivo. Con i “forti”, i tedeschi, sempre meno disponibili a mettere mano al portafogli per tutti gli altri.»
Il destino dell’euro è a rischio. Ma, in un momento in cui anche il dollaro marca il passo, ci sono monete migliori?
Richard Ebeling, docente di economia presso la Northwood University (Michigan, USA) e importante economista della scuola austriaca, suggerise un ritorno al Gold Standard come antidoto al potere politico di stampare cartamoneta al fine di coprire il differenza tra spesa pubblica e gettito fiscale.
Anche fra quanti non contemplano soluzioni tanto radicali, è ormai diffusa l’idea che qualcosa debba cambiare, nel nostro modello sociale.
Persino Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, ha incitato all’abbandono del modello economico statalista e socialdemocratico, per restituire al mercato le competenze sottratte dai poteri pubblici. Daniel J. Mitchell (Cato Institute) in occasione di una visita all’Istituto Bruno Leoni ha fatto notare come si possa abbattere il debito senza aumentare le tasse, anche in Italia dove la mostruosità tocca i 120 punti percentuali di PIL.
Superata la soglia del 60% consentito nel rapporto tra debito e pil, dunque, scattano le ricette più varie.
http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=10535
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Anche per l'Italia le cifre dimostrano che per liberarsi del deficit di bilancio basta un po' di rigore fiscale
di Daniel J. Mitchell
Alla fine del Secondo conflitto mondiale, il debito pubblico degli Stati Uniti era paragonabile a quello attuale dell'Italia: circa il 120 percento del pil. Tuttavia, entro la fine del secolo scorso il fardello del debito si era ridotto a meno del 40 per cento della produzione economica. Tale riduzione non ha avuto luogo perché l'America abbia saldato i propri debiti, ma grazie al fatto che il settore privato è cresciuto più velocemente del pubblico.
In altre parole, la limitazione della spesa nel Dopoguerra ha fatto sì che l'indebitamento nazionale diminuisse sempre più in proporzione all'economia generale. Non è stato necessario mettere le mani sulla ricchezza del popolo americano imponendo una tassa invalidante sul patrimonio. La risposta alla maggior parte dei problemi fiscali sta nel contenimento dell'aumento della spesa pubblica.
Tra gli anni 80 e l'inizio degli anni 90 il Canada versava in una grave situazione fiscale. Circa 15 anni fa i politici hanno deciso di fare la cosa giusta e porre un freno alla spesa. Tra il 1992 e il 1997, il bilancio canadese è cresciuto passando da 374 a 391 miliardi, con un aumento medio di meno dell'un per cento su base annua. Contestualmente il bilancio fiscale è passato da un disavanzo del 9,1 per cento rispetto al pil a un avanzo dello 0,2 per cento del pil. Diamo infine un'occhiata alla Nuova Zelanda. Negli anni 80 si era giunti a una situazione in cui il settore pubblico assorbiva più della metà della produzione economica. I neozelandesi hanno messo in atto un'inversione di tendenza, dando inizio a un periodo di rigore fiscale. Tra il 1990 e il 1995 il bilancio della Nuova Zelanda è passato da 39,3 miliardi a 38,8 miliardi e il paese è passato da un deficit del 4,5 per cento a un avanzo pari al 2,8 per cento del pil.
Il concetto chiave da capire è che non è necessario aumentare le tasse. I politici possono far quadrare il bilancio e ridurre il fardello del debito contenendo la crescita della spesa pubblica. Al contrario, l'esperienza europea dimostra che una pressione fiscale eccessiva non rappresenta la panacea per il bilancio fiscale. Aveva ragione Milton Friedman quando, molti anni fa, ammonì che "a lungo andare il governo spenderà tutto quello che il sistema delle imposte sarà in grado di raccogliere più tutto quello che riuscirà ad accaparrarsi". È per questo che il contenimento delle uscite è l'unico strumento efficace per scongiurare la crisi fiscale e, indubbiamente, è l'unico metodo che consenta la crescita.