[O.T.] Libri consigliati?
Moderatori: Super Zeta, AlexSmith, Pim, Moderatore1
- bigtitslover
- Veterano dell'impulso
- Messaggi: 4285
- Iscritto il: 18/01/2007, 11:24
- Località: un cargo battente bandiera liberiana
[quote:4e7426b8b2="JoaoTinto"][b:4e7426b8b2]Un banda di idioti[/b:4e7426b8b2] di John Kennedy Toole.
Il libro narra le vicende del gigante Ignatius J. Reilly, enorme ed eterno fanciullone yankee, con baffoni e con in testa un berretto da cacciatore dagli enormi paraorecchi verdi che non si toglie neppure quando va al cinema, goloso divoratore di junk food e altre schifezze, di dolciumi e bibite dolciastre, di dozzine di hot dog, [b:4e7426b8b2]pigrissimo, inguaribilmente onanista, fisicamente rivoltante e con un immenso (ed ingiustificato) senso di autostima e supponenza che gli impedisce di relazionarsi in modo equilibrato con il resto del mondo.[/b:4e7426b8b2][b:4e7426b8b2] Per niente politically correct, parla un linguaggio tutto suo, e poco gl'importa che le sue concezioni del sesso, del lavoro, della politica, e soprattutto della vita, abbiano fondamenta risibili.[/b:4e7426b8b2] In più quando è chiuso nella sua camera, piena di assurdo ciarpame e dove è fatto divieto assoluto alla madre di entrare, scarabocchia appunti su un grande saggio di storia comparata che denunci agli uomini colti il corso degenerativo dell'America contemporanea che lui ritiene, come d'altronde il resto del mondo, "priva di geometria e teologia"(come direbbe lui stesso). Come guida, visto che è laureato in filosofia, ha scelto il filosofo medievale Boezio, da cui ricava massime e precetti.
Attorno a lui, a New Orleans, un coro di personaggi:
Jones, negro in semischiavitù, che fulmina con una frase al vetriolo "quella nazista della padrona" del Notti di Follia. La signorina Trixie, ottuagenaria sempre a caccia di prosciutti pasquali e, suo malgrado, dell'eterna giovinezza. Myrna, anarco-femminista di New York, che sfida con un serrato carteggio anima e sesso di Ignatius. Una mamma disperata, Santa Battaglia e l'agente Mancuso, pronti a consolarsi con partite di bowling.E Yoghi, Rosvita e Batman, le Manifatture Levy, Gus Levy, signora e viziatissime figlie. E poi altri ancora.
Un banale incidente d'auto e la conseguente richiesta di danni costringerà Ignatius ad uscire dalle quattro mura della sua fumettisticamente povera e minuscola casetta (nella quale convive con la mamma pensionata) per cercare un lavoro. E lo trova alla Levy, le cui procedure snellisce disinvoltamente gettando nel cestino interi schedari, o falsificando la firma di Levy su insultanti lettere ai clienti (esempio: "Egregio Signor Mongoloide...").
Ma, licenziato, trova un lavoro da venditore di hot-dog (che raramente finiranno nello stomaco dei clienti).
P. S.
Il titolo è una citazione di Jonathan Swift: [i:4e7426b8b2]«Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui.»[/i:4e7426b8b2] Citazione che è riportata nel frontespizio del libro.[/quote:4e7426b8b2]
quanto ho amato questo libro... consiglio vivamente di leggerlo!
ti strappa risate ad ogni pagina ed un protagonista così fuori dagli schemi l'ho trovato raramente in altri libri.
Ignatius è amabilmente insopportabile...
Il libro narra le vicende del gigante Ignatius J. Reilly, enorme ed eterno fanciullone yankee, con baffoni e con in testa un berretto da cacciatore dagli enormi paraorecchi verdi che non si toglie neppure quando va al cinema, goloso divoratore di junk food e altre schifezze, di dolciumi e bibite dolciastre, di dozzine di hot dog, [b:4e7426b8b2]pigrissimo, inguaribilmente onanista, fisicamente rivoltante e con un immenso (ed ingiustificato) senso di autostima e supponenza che gli impedisce di relazionarsi in modo equilibrato con il resto del mondo.[/b:4e7426b8b2][b:4e7426b8b2] Per niente politically correct, parla un linguaggio tutto suo, e poco gl'importa che le sue concezioni del sesso, del lavoro, della politica, e soprattutto della vita, abbiano fondamenta risibili.[/b:4e7426b8b2] In più quando è chiuso nella sua camera, piena di assurdo ciarpame e dove è fatto divieto assoluto alla madre di entrare, scarabocchia appunti su un grande saggio di storia comparata che denunci agli uomini colti il corso degenerativo dell'America contemporanea che lui ritiene, come d'altronde il resto del mondo, "priva di geometria e teologia"(come direbbe lui stesso). Come guida, visto che è laureato in filosofia, ha scelto il filosofo medievale Boezio, da cui ricava massime e precetti.
Attorno a lui, a New Orleans, un coro di personaggi:
Jones, negro in semischiavitù, che fulmina con una frase al vetriolo "quella nazista della padrona" del Notti di Follia. La signorina Trixie, ottuagenaria sempre a caccia di prosciutti pasquali e, suo malgrado, dell'eterna giovinezza. Myrna, anarco-femminista di New York, che sfida con un serrato carteggio anima e sesso di Ignatius. Una mamma disperata, Santa Battaglia e l'agente Mancuso, pronti a consolarsi con partite di bowling.E Yoghi, Rosvita e Batman, le Manifatture Levy, Gus Levy, signora e viziatissime figlie. E poi altri ancora.
Un banale incidente d'auto e la conseguente richiesta di danni costringerà Ignatius ad uscire dalle quattro mura della sua fumettisticamente povera e minuscola casetta (nella quale convive con la mamma pensionata) per cercare un lavoro. E lo trova alla Levy, le cui procedure snellisce disinvoltamente gettando nel cestino interi schedari, o falsificando la firma di Levy su insultanti lettere ai clienti (esempio: "Egregio Signor Mongoloide...").
Ma, licenziato, trova un lavoro da venditore di hot-dog (che raramente finiranno nello stomaco dei clienti).
P. S.
Il titolo è una citazione di Jonathan Swift: [i:4e7426b8b2]«Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui.»[/i:4e7426b8b2] Citazione che è riportata nel frontespizio del libro.[/quote:4e7426b8b2]
quanto ho amato questo libro... consiglio vivamente di leggerlo!
ti strappa risate ad ogni pagina ed un protagonista così fuori dagli schemi l'ho trovato raramente in altri libri.
Ignatius è amabilmente insopportabile...
"Questa è l'Italia del futuro: un paese di musichette...mentre fuori c'è la Morte!" - Boris 3 -
Gastronomia operaia, cannibalizzazione, coltello, forchetta, magnammoce o' padrone - Daniele Sepe -
Blog rhum e cocaina per battere il sistema - Manuel Agnelli -
Quanti troppi anni ri e riciclando il peggio, tutte queste bestie a raschiare il fondo - Mau Mau -
Abbasso le fiche depilate, viva i cespuglioni anni '80 - scritta sul muro -
Senza rabbia non essere felice - scritta sul muro -
Gastronomia operaia, cannibalizzazione, coltello, forchetta, magnammoce o' padrone - Daniele Sepe -
Blog rhum e cocaina per battere il sistema - Manuel Agnelli -
Quanti troppi anni ri e riciclando il peggio, tutte queste bestie a raschiare il fondo - Mau Mau -
Abbasso le fiche depilate, viva i cespuglioni anni '80 - scritta sul muro -
Senza rabbia non essere felice - scritta sul muro -
- JoaoTinto
- Impulsi superiori
- Messaggi: 1778
- Iscritto il: 18/07/2007, 3:00
- Località: Har Məgiddô in attesa dei Ragnarǫk
- Contatta:
Joao, non è per caso che J.K. Toole sei tu e hai fatto credere al mondo di esserti suicidato nel 1969 mantre invece, scappato in ItaGlia, prendevi la falsa identita di di Giovanni Rosso ?
A noi puoi dirlo eh?
[/i]
A noi puoi dirlo eh?



Iudicio procede da savere, Cum scritta legge receve repulsa Ecceptuando 'l singular vedere. Per una vista iudicare 'l facto Sentenzia da vertute se resulta Erro e rasone se corrumpe 'l pacto. Non iudicare, se tu non vedi, E non serai ingannato se ciò credi.
[L’Acerba - Cecco d’Ascoli]
I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
[Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev]
[L’Acerba - Cecco d’Ascoli]
I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
[Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev]
- JoaoTinto
- Impulsi superiori
- Messaggi: 1778
- Iscritto il: 18/07/2007, 3:00
- Località: Har Məgiddô in attesa dei Ragnarǫk
- Contatta:
Joao, non è per caso che J.K. Toole sei tu e hai fatto credere al mondo di esserti suicidato nel 1969 mantre invece, scappato in ItaGlia, prendevi la falsa identita di di Giovanni Rosso ?
A noi puoi dirlo eh?



Iudicio procede da savere, Cum scritta legge receve repulsa Ecceptuando 'l singular vedere. Per una vista iudicare 'l facto Sentenzia da vertute se resulta Erro e rasone se corrumpe 'l pacto. Non iudicare, se tu non vedi, E non serai ingannato se ciò credi.
[L’Acerba - Cecco d’Ascoli]
I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
[Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev]
[L’Acerba - Cecco d’Ascoli]
I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
[Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev]
L'anatomista
di Federico Andahazi
Nell'Italia del '500, un medico innamorato cerca la sede del piacere femminile. Primo romanzo di un giovane psicanalista argentino, arriva anche da noi, edito da Frassinelli, il libro che ha conquistato il mondo. E che diventerà un film con Antonio Banderas
Il fattore Massimo Troglio era il fattore di puttane più prestigioso d'Europa. àˆ vero che comprava, vendeva e perfino rubava come qualsiasi trafficante. Ma questo era solo il principio di un lungo e laborioso lavoro, il primo anello di un costosissimo e proporzionalmente redditizio mestiere. Massimo Troglio era, eminentemente, un pedagogo, un miscuglio del più miserabile pedofilo e del più sublime maestro. Il Fattore - come lo chiamava qualcuno - era il fondatore della più prestigiosa Scuola di Puttane; padre, per così dire, della razza di puttane più sublime di Venezia, addirittura di Lena Grifa e di tutte le puttane che adornarono la corte dei Medici, delle puttane che imprigionarono il cuore di monarchi e arcivescovi. Di tutte le puttane in onore delle quali furono innalzati i palazzi più fastosi di Venezia. Nemmeno un'imperatrice riceveva l'educazione della meno brillante delle puttane di Massimo Troglio. Le più giovani, come Ninna Sofia, erano oggetto delle cure più attente. Le madonne- le puttane più anziane - si incaricavano di far da tutrici a quelle in più tenera età . Si preoccupavano di far loro il bagno con latte di lupa, poichè l'acqua era stata proibita dopo le grandi epidemie e, secondo gli insegnamenti di Massimo Troglio, il latte di lupa affrettava la crescita ed evitava la decrepitezza; sfregavano la loro pelle con saliva di giumenta per impedire che le carni crescessero molli e, un giorno alla settimana, le facevano dormire in una stalla insieme ai maiali affinchè apprendessero a sopportare i fetori più ripugnanti e le compagnie più sgradevoli. Massimo Troglio fu l'autore di Scuola di Puttane, una serie di 715 aforismi divisi in sette libri e ispirati senza dubbio agli Aforismi di Ippocrate. Fra le altre corse, sosteneva che le puttane migliori e più leali erano quelle nate da: 1. falegname e mungitrice; 2. cacciatore e donna mongola, possibilmente cinese; 3. marinaio e ricamatrice. Affermava poi che "una donna puó concepire un figlio addirittura da sette uomini i cui succhi seminali si uniscono nell'utero e si combinano gli uni con gli altri a seconda della forza seminale di ciascuno dei padri". "Quella del Fattore di Puttane è l'arte più sublime; più di quella di creatore di profumi e di quella dell'alchimista; come questi, uniamo le essenze più nobili con quelle più vili, quelle più antagoniste e quelle più simpatiche". Massimo Troglio si mostrava particolarmente interessato a quella piccola che il cielo gli aveva inviato. Affinchè non vi fosse alcun dubbio che era una delle sue pupille, le tolse il braccialetto e gliene fece fare un altro - di oro e rubini - dove spiccava il suo nuovo e definitivo nome: Monna Sofia. Poche volte aveva visto una bambina con un carattere simile, con tanta e così precoce intelligenza e, soprattutto, dotata di quella singolare e straordinaria bellezza. Monna Sofia era la sintesi di tutte le puttane messa in un corpo di bambina, una specie di estratto di puttana allo stato puro. Eppure, Monna Sofia non era esente dai due grandi e, di certo, misteriosi problemi contro cui deve combattere un maestro di puttane: l'amore e il piacere. Massimo Troglio non aveva mai visto un odio così incommensurabile come quello che gli dimostrava la piccola, e non perchè lo preoccupasse essere oggetto di un tale sentimento, ma perchè, a quanto gli insegnava l'esperienza - e così recitata l'aforisma IX - "quanto più una donna è proclive all'odio, tanto più è proclive all'amore". La seconda preoccupazione non era, in se stessa, l'assenza di qualsiasi manifestazione di dolore, ma il sospetto che dietro la maschera dell'insensibilità , quanto più intenso era il dolore per Monna Sofia, tanto più intenso era il piacere che le provocava. E, infine, i primi cicli di formazione di una puttana non avevano altro scopo mediato che l'interdizione dell'amore e del piacere. L'investimento era troppo grande e richiedeva troppa pazienza per permettere che - come era successo più di una volta - un bel giorno l'ingrata se ne andasse, innamorata cotta, dietro un qualsiasi uomo. Fra questi aforismi, Massimo Troglio scrisse: "Corrompere è più difficile che educare. àˆ più facile rimpiazzare un sistema morale con un altro che spogliare qualcuno della propria morale. L'educazione nella morale favorisce l'educazione delle puttane. Come il filosofo, il maestro di puttane deve essere veicolo della morale. àˆ più conveniente per il monarca l'esistenza di puttane per denaro che l'esistenza di puttane per piacere". Massimo Troglio basava tutta la sua teoria sui canoni ellenici. Le massime che guidavano la sua penna e, di conseguenza, la sua pratica, erano - è ovvio - quelle della Metafisica di Aristotele. Aristotelica era la sua concezione della donna e dell'uomo e aristotelico, naturalmente, era il suo giudizio sulla procreazione; si abbeverava anche alla fonte aristotelica per spiegare in che modo "l'uomo deve servirsi, per causa naturale, del profitto della donna". Nel capitolo "Sulla mostruosa condizione femminile", diceva: "Come insegna il Maestro Aristotele, lo sperma dell'uomo è l'essenza, la potenzialità essenziale che trasmette la virtualità formale del futuro essere. L'uomo reca nel suo seme l'alito, la forma, l'identità , cioè la kinesis che fa della cosa una materia viva. L'uomo, in fine, è colui che dà l'anima alla cosa. Il seme ha il movimento che gli imprime il suo progenitore, è l'esecuzione di un'idea che corrisponde alla forma del genitore stesso, senza che ció implichi la trasmissione di materia da parte dell'uomo. In condizioni ideali, il futuro tenderà all'identità completa del padre. La donna apporta il sostentamento materiale del suo sangue, la corporeità , la carne che invecchia, si corrompe e muore. L'essenza dell'anima è sempre maschile. Come ha insegnato il Maestro, la procreazione di bambine è, in ogni caso, prodotto delle debolezza del progenitore a causa di una malattia, della vecchiaia o della precocità . "La donna fornisce sempre la materia e l'uomo il principio creatore: per noi è questa, in effetti, la funzione propria di ciascuno dei due, e questo significa essere femmina o maschio. àˆ necessario pure che la femmina fornisca un corpo, una determinata quantità di materia, mentre ció non è necessario per il maschio: non è necessario che gli strumenti esistano nei prodotti che vengono fabbricati e neanche che in essi esista l'agente che li produce". Quella di Massimo Troglio non è solamente una nozione intorno al concepire, ma anche - e sempre sotto l'egida intellettuale di Aristotele - della genealogia stessa dell'essere vivente: "Il seme è un organo che possiede un movimento in atto". "Il seme non è una parte del feto in formazione, come nessuna particella di sostanza passa dal falegname all'oggetto da lui elaborato per unirsi al legno, così nessuna particella di seme puó intervenire nella composizione dell'embrione". Ed esemplifica: "La musica non è lo strumento, nè lo strumento è la musica. E tuttavia, la musica è identica all'idea dell'autore". àˆ facile dedurre quale fosse il nodo della teoria di Massimo Troglio: la proprietà , la patria potestà , il diritto al possesso della discendenza da parte dell'autore, cioè il padre. Così come è chiaro che il proposito di Aristotele altro non era che la riaffermazione del Diritto greco. La donna, questa è la teoria, era del tutto residuale e la sua essenza era quel sangue che appare una volta al mese; una massa di liquido crudo, impuro, non elaborato, inerte e amorfo, ma, naturalmente, toccato dall'alito, la kinesis, del suo debole progenitore. Per cui quest'ultima rivelazione aristotelica è quella che gli propone il metodo, il modo di produzione e di appropriazione delle donne. Monna Sofia era la più bella e la più precocemente sviluppata delle discepole di Massimo Troglio. Inoltre dimostrava una prematura predisposizione al mestiere. Aveva una sensualità poco frequente in una bambina della sua età . Quando compì sei anni, Massimo Troglio decise che ormai poteva cominciare la seconda tappa della sua formazione. Nella Scuola di Puttane le pupille ricevano fin da giovanissime un'educazione religiosa, si insegnava loro la mitologia antica e apprendevano, naturalmente, a leggere e a scrivere, non solo in vernacolo ma addirittura in greco e latino. La Scuola era, fondamentalmente, un'istituzione rinascimentale, altrettanto prestigiosa di qualunque altra delle numerose scuole di pittura della penisola. Infatti riceveva un sussidio dalla municipalità e ciascuna delle pupille aveva il rango di funzionario pubblico. Monna adorava ascoltare le storie che le raccontava Filippa, la sua istitutrice. Ogni volta che sentiva come la balena inghiottiva Giona tutto intero, sgranava gli occhi smisuratamente e ingiungeva a Filippa di omettere le parti superflue del racconto per dirle rapidamente quale era stata la sorte dell'eroe. Tutto filava liscio fino a quando Filippa cominciava a incolparla. Monna negava decisamente di aver partecipato in qualche modo alla crocefissione di Nostro Signore Gesù Cristo e non riusciva a sopportare l'accusa che Lui fosse morto per causa sua. In fin dei conti, chi era lei? Che importanza poteva avere la sua insignificante esistenza nientemeno che nella sorte del Salvatore? Ugualmente, si dichiaró esente da ogni colpa e complicità nei peccati di Eva, che, d'altra parte, dichiarava di non avere mai visto. Eppure, a denti stretti, finiva con l'assentire chinando la testa senza troppa convinzione, perchè era capace di sopportare tutto meno gli acutissimi strilli di Filippa, che le rompevano i timpani. Massimo Troglio - a suo merito, o forse per sua colpa - fece di Monna Sofia la sua opera più sublime. Dieci anni di educazione e di cure avevano dato il loro frutto: era la donna più bella di Venezia. Il Fattore aveva saputo essere paziente; quando la sua pupilla compì tredici anni le annunció che era arrivato il momento dell'iniziazione. Monna debuttó in società nella festa di presentazione che, tutti gli anni, Massimo Troglio offriva nel suo palazzo. Si trattava di un'emozionante cerimonia in cui ogni diplomata riceveva la nomina di funzionaria pubblica dalle mani di qualche notabile dello Stato della Repubblica. Quando venne annunciata Monna Sofia, sopravvenne un silenzio fatto di venerazione e di stupore. La Venere medicea era una rozza contadina paragonata a quella donna che compariva sulla porte del salone. Da ogni parte d'Europa arrivavano nobili signori fino alla Scuola e pagavano vere e proprie fortune. In meno di sei mesi, Massimo Troglio aveva recuperato fino all'ultimo ducato investito nella sua pupilla. Nel corso del primo anno, il Fattore quintuplicó il totale del suo investimento. Il corpo di Monna Sofia aveva incrementato il patrimonio di Massimo Troglio di... duemila ducati! Di quando Matteo Colombo conobbe Monna Sofia Durante il suo breve soggiorno a Venezia nell'autunno del 1557, l'anatomista conobbe Monna Sofia. Accadde nel palazzo di un certo duca, in occasione della festa che l'anfitrione si concesse il giorno del proprio onomastico. Monna Sofia era ormai una donna adulta e sperimentata. Aveva quindici anni. Forse a causa della dichiarazione di Leonardo da Vinci sul fatto che non comprendeva come mai gli uomini si vergognassero della propria virilità e "nascondessero il loro sesso invece di adornarlo con grande solennità , come fosse un ministro", forse per questa ragione, quell'anno si era diffusa fra gli uomini la moda di esibire e adornare con gran pompa i genitali. Quasi tutti gli invitati, eccetto i più anziani, esibivano delle calze dai toni chiari che mettevano in mostra le parti intime dei loro proprietari grazie all'uso di nastri che passavano fra la vita e l'inguine, in modo da far risaltare le virilità . Coloro che avevano maggior motivo di essere grati al Creatore accettarono quella moda molto volentieri. Gli altri usavano diversi modi per adattarsi ai tempi senza doversi vergognare. Nella Bottega del Moro si vendevano delle imbottiture che andavano mese sotto le calze e che servivano, giustamente, per prestare grazia a uomini più o meno sgraziati. Fra i molteplici orpelli, dalle piccole pietre che incominciavano il "ministro" fino a decorazioni di perle molto vistose, si usava un nastro a cui erano legate quattro o cinque campanelle che rivelavano lo stato d'animo di "sua signoria". Così le dame potevano accorgersi dell'entusiasmo che suscitavano fra i cavalieri, a seconda dello scampanio dei sonaglietti. Era quella una festa come le altre: prima si balló la danza del bacio che non aveva altre regole che quella di muoversi a proprio piacimento, con l'unica condizione che, nel formarsi o sciogliersi della coppia, lo si facesse con un bacio. Matteo Colombo si manteneva lontano dai passi di ballo e, sebbene non fosse un uomo vecchio, vestiva in modo tradizionale, cosa che, fra tanta esibizione di chiappe maschili, gli conferiva un'aria importante. E in verità si vide premiato da più sguardi femminili di coloro che ostentavano i propri maestosi campanili, autentici o posticci. La festa non era ancora giunta a metà , quando comparve Monna Sofia. Non ci fu bisogno di annunciarla. I suoi due schiavi mori la fecero discendere dalla portantina vicino al vano della porta del salone. Se fino a quel momento c'erano tre o quattro donne che accaparravano l'attenzione, la più bella fra loro non potè evitare di sentirsi storpia, zoppa o gobba se paragonata alla nuova arrivata. Monna Sofia aveva una statura augusta. Indossava un vestito la cui gonna si apriva fino all'inizio delle cosce. La seta lasciava trasparire perfettamente tutto il suo corpo. I seni si agitavano a ogni passo sul bordo della scollatura che lasciava vedere la metà del diametro dei capezzoli. Sulla fronte le pendeva uno smeraldo il cui scopo era quello di sottolineare ancora di più lo splendore dei suoi occhi verdi. Monna Sofia fu ricevuta da un vero e proprio carillon, da un centinaio di virili scampanellate. Matteo Colombo se ne restó in un angolo solitario del salone. Neanche l'anatomista aveva potuto sottrarsi alla bellezza della nuova arrivata. E in effetti osó lasciare a metà il discorso di una dama ipocondriaca che non la finiva di enumerare i suoi malanni e dalla quale non sapeva come liberarsi. Monna Sofia fu ricevuta dall'anfitrione che, immediatamente, la coinvolse nel ballo del bacio. Secondo la regola, il cavaliere doveva invitare la dama con un bacio e, dopo aver eseguito qualche figura, la dama doveva sostituire il suo cavaliere con un altro e così successivamente. Naturalmente era un ballo propizio alla seduzione; le regole erano le seguenti: se una dama non era interessata ad alcun cavaliere, allora la soluzione di compromesso consisteva nell'invitare a ballare un uomo sposato. Se invece la dama sceglieva uno scapolo, le intenzioni risultavano chiare. Ma esistevano anche delle norme quanto al bacio; se la dama sfiorava appena la guancia del cavaliere, non aveva altro proposito che quello di ballare e di divertirsi un po'; invece un bacio affettuoso indicava intenzioni più o meno formali, per esempio, di matrimonio. Ma se il bacio sfiorava le labbra del cavaliere, i propositi lascivi della dama risultavano chiari; si trattava di un puro e semplice invito al sesso. Monna Lisa ballava una danza che si sarebbe detta orientale: con entrambe le mani si cingeva la vita mentre faceva ondeggiare i fianchi. Tutti aspettavano con curiosa ansietà il momento in cui avrebbe dovuto scegliere un nuovo cavaliere; ragione per cui tutti i giovani si contendevano la prima fila, esibendo, senza risparmiarsi alcuna oscenità , i loro voluminosi animi adorni. Peró Monna Sofia aveva conosciuto in altre circostanze più d'uno di quei cavalieri senza altro ornamento che quello con cui erano venuti al mondo e che ora ostentavano delle inesplicabili virilità . Guardava ognuno di coloro che speravano di essere eletti, si rivolgeva a qualcuno di loro e a quel punto, quando sembrava che si fosse decisa, girava sui tacchi e si avviava verso un altro uomo, a cui, poi, faceva lo stesso sgarbo. Sempre muovendosi al ritmo dei liuti, Monna Sofia si fece largo fra un gruppo di euforici corteggiatori fino a oltrepassarli e, allora, Matteo Colombo riuscì a vedere come i seni di Monna, che tremavano sull'orlo della scollatura, lo indicassero con i loro capezzoli. Monna Sofia camminava decisa verso l'anatomista. In altre circostanze, Matteo Colombo si sarebbe vergognato; invece, ora, mentre vedeva avanzare quella donna che lo guardava come mai prima si era sentito guardare, non potè evitare l'impressione che in quel salone non ci fosse altri che lei. Eppure poteva sentire il chiasso degli altri e della musica dei liuti; poteva perfino vedere la folla degli invitati. Sentiva, esattamente, quello che sente un topolino davanti a un serpente. Non poteva, neanche volendo, guardare altro che non quegli occhi verdi che facevano impallidire lo smeraldo posato fra le sopracciglia. Monna Sofia avvicinó le labbra a quelle dell'anatomista - poteva sentire il suo alito di menta e di acqua di rose - e allora, come una brezza calda, effimera, potè sentire all'angolo delle labbra la breve carezza della lingua di Monna Sofia. Balló, sì; non perse la compostezza, no; fu galante. Riuscì perfino a dissimulare il fatto che, da quella volta fino al giorno della sua morte, non avrebbe più potuto fare a meno di quell'alito di menta e acqua di rose, di quella brezza calda ed effimera, del conforto di quegli occhi verdi. Balló. Nessuno avrebbe detto che, come la vittima di un serpente il cui veleno va invadendo, implacabile, il sangue, quell'uomo austero che ballava si era appena ammalato mortalmente. Balló. Per sempre, fino al giorno della sua morte, avrebbe ricordato di aver ballato sotto l'incantesimo di quegli occhi maliziosi; fino all'ultimo giorno come si commemora l'anniversario di un martire, avrebbe ricordato che attraversarono corridoi, giardini e gallerie e che, in una recondita alcova del palazzo, con il lontano sussurro dei liuti, potè baciare quei rosei capezzoli, duri come perle ma più fini del petalo di un fiore. Fino al giorno della sua morte avrebbe ricordato, come una ricorrenza lugubre eppure tanto dolce, quella voce di legna crepitante, le stregonerie di quella lingua la cui materia era la stessa del fuoco dell'inferno. Fino all'ultimo giorno avrebbe ricordato che, come colui che ha fatto promessa di digiuno e rinuncia al cibo consentito per prolungare l'ansia di mangiare, così rifiutó il suo corpo e invece, aggiustandosi la veste, le disse: "Voglio farvi il ritratto". E, come il naufrago che confonde le nubi dell'orizzonte con la terraferma, credette di vedere amore in quegli occhi verdi pieni di ciglia ricurve. Ma non erano che nubi. "Voglio farvi il ritratto", ripetè con l'animo turbato dall'emozione. E credette di vedere emozione negli occhi del serpente. Monna Lisa lo bació con tenerezza infinita. "Potete venire a trovarmi quando volete", disse e con un sussurro aggiunse: "Venite domani stesso". L'anatomista la vide sistemarsi gli abiti, vide come per l'ultima volta gli offriva i capezzoli duri per farseli baciare e la vide girare sui tacchi e dirigersi verso la porta. Allora udì che gli diceva, prima di perdersi dall'altro lato: "Venite domani, vi aspetto". Ma non erano che nubi. Il giorno seguente, alle cinque in punto della sera, Matteo Colombo salì i sette gradini dell'atrio del bordello del Fauno Rosso. Portava il suo cavalletto da viaggio in spalla, la tela sul petto, la tavolozza sotto il braccio destro, e la sacca con gli oli appesa alla cintura della veste. Arrivava così carico che per poco non travolse l'amministratrice. Quando Matteo Colombo si affacció al vano della porta, Monna Sofia, coperta da un tulle trasparente, stava finendo di intrecciarsi i capelli davanti allo specchio del suo tavolo da toletta. L'anatomista, che stava ancora in piedi con tutto il suo bagaglio addosso, potè vedere nello specchio quegli stessi occhi nei quali il giorno prima aveva visto l'amore. Ed ora erano lì, solo per lui, per i suoi occhi. E allora si annunció schiarendosi la voce. Senza girarsi, senza neanche guardare, Monna Sofia fece un gesto d'invito con la mano. "Vengo a farvi il ritratto". Senza girarsi, senza neanche guardare, Monna Sofia dichiaró: "Ció che farete durante la visita mi è completamente indifferente", disse, e aggiunse immediatamente: "Se non lo sapete, la tariffa è di dieci ducati". "Vi ricordate di me?" mormoró Matteo Colombo. "Se riuscissi a guardarvi in faccia... " disse al suo anonimo interlocutore la cui faccia era coperta dalla tela che portava. Allora l'anatomista posó le sue carabattole a terra. Monna Sofia lo esaminó dallo specchio. "Non credo di avervi visto prima", titubó e, a scanso di equivoci, gli ricordó di nuovo la tariffa: "Dieci ducati". Matteo Colombo lasció i dieci ducati sul comodino, srotoló la tela, la mise sul cavalletto, estrasse i colori a olio dal sacchetto che pendeva dalla sua cintura, preparó i pennelli e, senza dire una parola, cominció il ritratto che avrebbe intitolato Donna innamorata. Ogni giorno, quando gli automi della Torre davano il quinto rintocco, Matteo Colombo saliva i sette gradini che conducevano all'atrio del bordello di calle Bocciari, entrava nell'alcova di Monna, lasciava dieci ducati sul comodino e, mentre sistemava la tela, senza neanche togliersi il mantello, diceva a Monna di amarla e che, anche se lei non ne voleva sapere, lui poteva leggere l'amore nei suoi occhi. Fra una pennellata e l'altra la supplicava di abbandonare quel bordello e di andar via con lui, dall'altra parte del Monte Veldo, a Padova, che se lei voleva così era disposto ad abbandonare la sua cattedra all'università . E Monna, nuda sul letto, i capezzoli duri come mandorle e lisci come i petali di un fiore, fissava la Torre dell'Orologio che si innalzava dall'altra parte della finestra, aspettando che le campane rintoccassero una buona volta. E quando finalmente lo facevano, lo guardava con gli occhi pieni di malizia: "Il tuo tempo è scaduto", diceva e si dirigeva verso la toletta. E ogni giorno, alle cinque della sera, quando le ombre delle colonne di San Teodoro e quella del leone alato si fondono in un'unica e obliqua frangia che attraversa la piazza San Marco, l'anatomista arrivava al bordello con il suo cavalletto, la sua tela e i suoi colori, lasciava i dieci ducati sul comodino e non si toglieva nemmeno la veste. Mentre mescolava i colori sulla tavolozza, le diceva di amarla, che anche se lei stessa lo ignorava, lui sapeva capire quando l'amore si impossessava di uno sguardo. Le diceva che nemmeno la mano di un dio avrebbe potuto imitare tanta bellezza, che se l'amministratrice non approvava il matrimonio, era disposto a pagare per lei tutto il denaro che possedeva, di lasciare quel postribolo infame e di andarsene insieme a lui nella sua casa natale a Cremona. E Monna Sofia, che sembrava non lo ascoltasse nemmeno, si accarezzava le cosce lisce e sode e tornite come il legno, e aspettava che suonasse il primo dei sei rintocchi che indicava che il tempo del suo cliente era finito. E ogni giorno, alle cinque in punto della sera, quando le acque del canale cominciavano a salire sulle gradinate, Matteo Colombo arrivava al bordello di calle Bocciari, vicino a Santa Trinità e, senza nemmeno togliersi la berretta che gli copriva la nuca, lasciava i dieci ducati sul comodino e, mentre sistemava la tela sul cavalletto, le diceva che l'amava, di fuggire insieme dall'altro lato del Monte Veldo o, se era necessario, dall'altro lato del Mediterraneo. E Monna, chiusa nel suo cinico mutismo, nel suo silenzio malizioso, si accomodava la treccia oltre la vita, si accarezzava i capezzoli e non si scomodava nemmeno per vedere i progressi del ritratto. Non guardava altro che l'Orologio della Torre, in attesa che, finalmente, rintoccasse per poter pronunciare le uniche parole delle quali sembrava essere capace. "Il tempo è scaduto". E ogni giorno, alle cinque della sera, quando il sole era una tiepida virtualità moltiplicata per cinque sulle cupole della Basilica di San Marco, l'anatomista, carico di sacche, stringhe e umiliazione, lasciava dieci ducati sul comodino e fra l'acre profumo degli oli e del sesso altrui, le diceva che l'amava, che era disposto a disfarsi di tutto quanto possedeva per comprarla, che sarebbero fuggiti dall'altra parte del Mediterraneo o, se era necessario, nelle terre nuove dall'altra parte dell'Atlantico. E Monna, senza dire una parola, accarezzava il pappagallo che dormicchiava sulla sua spalla, come se in quell'alcova non ci fosse nessun altro, aspettava che gli automi della Torre dell'Orologio si decidessero a muoversi e allora, con gli occhi pieni di una malizia sensuale, diceva: "Il tempo è finito". E durante tutto il suo soggiorno a Venezia, tutti i giorni, alle cinque in punto della sera, l'anatomista arrivava al bordello di calle Bocciari vino a Santa Trinità e le diceva che l'amava. E così fu fino a quando l'anatomista terminó il ritratto e, naturalmente, terminó tutto il suo denaro. Il suo tempo a Venezia era finito. Umiliato, povero, con il cuore a pezzi e senza altra compagnia che quella del suo corvo Leonardino, Matteo Colombo ritornó a Padova con una sola convinzione. Inès de Torremolinos Di ritorno a Padova lo attendevano due notizie: una buona e una cattiva. Quella cattiva si riferiva allo stato d'animo del decano. "Si dicono molte cose di voi a Padova", cominció col dirgli Alessandro da Legnano. "E per la verità , nessuna buona". Il decano informó l'anatomista che Beatrice, la pupilla del postribolo della Taverna del Mulo, era stata condotta in giudizio e bruciata come strega. "Nella sua dichiarazione vi ha nominato", disse laconico il decano. Matteo Colombo restó in silenzio. "Quanto a me", proseguì il decano, "vi condurrei davanti al Tribunale dell'Inquisizione oggi stesso", disse e potè notare che il suo interlocutore impallidiva, "tuttavia la fortuna sembra stare dalla vostra parte". Allora gli comunicó che un certo abate, parente dei Medici, aveva ordinato di chiamare l'anatomista a Firenze. Una dama di Castiglia - vedova di un nobile signore fiorentino, il marchese di Malagamba - stava agonizzando e un altissimo duca vicino ai Medici aveva contrattato i servigi dell'anatomista. Aveva pagato come anticipo mille fiorini e altri cinquecento ne pagherebbe nel caso avesse bisogno della collaborazione di un apprendista o di un aiutante. Il decano consideró una proposta giusta archiviare la faccenda di Beatrice e le testimonianze di Laverda e di Calandra, in cambio degli onorari offerti al suo cattedratico. "Partirete domani stesso per Firenze", concluse Alessandro da Legnano e, prima di congedare Matteo Colombo, aggiunse: "Quanto all'apprendista, con voi viaggerà Bertino. àˆ già deciso". A nulla sarebbe valso protestare. Matteo Colombo si limitó ad assentire; in verità il decano non gli lasciava nessun margine di negoziazione. Bertino si chiamava Alberto e portava lo stesso cognome del decano. Nessuno sapeva con esattezza che parentela li unisse. Ma Bertino era gli occhi e le orecchie di Alessandro da Legnano, un giovane un tantino più idiota del suo protettore, che, a Firenze, si sarebbe trasformato nell'ombra dell'anatomista. Inès era la maggiore delle figlie della nobile coppia formata da Don Rodrigo Torremolinos, conte di Urquijo e signore di Navarra, e Isabella d'Alba, duchessa di Cuernavaca e contessa di Urquijo. Con dispiacere del padre, la coppia non ebbe figli maschi. Così che, a causa della sua femminile "progenitura", la sua piccola altezza godeva pienamente della potestas e della divitia. Una simile genealogia e lignaggio, tuttavia, contrastavano con la sua precaria salute, con la pallida fragilità e con la sua minuscola e morbida figura. Come se quel corpicino fosse troppo piccolo e prematuro per ospitare un'anima, la bimba presentava un aspetto francamente esanime, non come se la vita la stesse per abbandonare, ma come se mai avesse alitato in lei. La culla dal fastoso baldacchino che era stata costruita per lei dal miglior ebanista di Castiglia era così grande che la piccola Inès diventava invisibile fra le pieghe della seta. A malapena si notava un segno di vita in certi orribili lamenti che, sempre, sembravano dover essere gli ultimi. L'ebanista, non appena ebbe terminato la culla, cominció a costruire il piccolo feretro. A mano a mano che si succedevano i giorni, la bambina perdeva volume, se così si poteva chiamare quella pura assenza. La nutrice, vedendo che la piccola Inès non aveva nemmeno la forza di aggrapparsi al capezzolo, l'aveva abbandonata definitivamente e, così sembrava, stava per ricevere l'ultimo sacramento prima di aver ricevuto il primo. Eppure, Dio sa come, la bimba sopravvisse. Poco a poco e come crescono dal nulla i teneri germogli su un ramo secco, la bambina andó guadagnando il codice dei vivi. A misura che la piccola Inès cresceva, nella stessa proporzione, ma inversamente, la fortuna famigliare illanguidiva. Gli olivi e le viti della casa che in altri tempi erano i più splendidi e generosi della penisola, e della cui abbondanza era testimone lo scudo famigliare, furono devastati dalla voracità di un'improvvisa epidemia che, da un giorno all'altro, fece seccare qualunque cosa presentasse una qualche volontà di rinverdire. Don Rodrigo, rovinato, senza altri beni se non la sua sconsolatezza e i suoi titoli, malediceva il ventre della moglie che, come i campi infetti prodighi soltanto di inutili sterpaglie, era stato incapace di fare un figlio maschio del suo sangue in grado, almeno, di portare a casa una dote. Era provato che l'unica cosa che riuscisse a generare la duchessa erano bimbe squallide. Disperato, Rodrigo andó a Firenze a chiedere aiuto al cugino, il marchese di Malagamba, a cui, oltre alla parentela, lo univa, in altri tempi, la coltivazione dell'olivo. Il nobile spagnolo imploró, pregó e perfino pianse. Il marchese si mostró un uomo dabbene, proclive alla comprensione e alla misericordia. Gli offrì consolazione, parole di coraggio e di fede; quanto al denaro, neanche un fiorino. Don Rodrigo tornó in Castiglia sconsolato. Eppure, l'estate seguente giunse un messaggero a casa del contrariato nobile castigliano. Recava un messaggio del marchese. Con sorpresa del conte, il fiorentino chiedeva la mano di sua figlia Inès e, in cambio, offriva a Don Rodrigo la somma di denaro che gli aveva chiesto l'anno passato. La proposta aveva una ragione: il marchese, vedovo, non aveva avuto discendenza, e dunque necessitava di un mezzo per ottenere un maschio legittimo, in altre parole, di una donna. D'altra parte, l'unione con il casato di Castiglia lo beneficiava in quanto, in questo modo, estendeva i suoi domini fino alla penisola iberica. Il messaggero partì alla volta di Firenze con l'assenso di Don Rodrigo. Inès, a quell'epoca, aveva appena tredici anni. Non vi fu corteggiamento nè seduzione, non esistettero lettere amorose nè regali, oltre a quello costituito, secondo i suoi genitori, dalla stessa Inès, la quale fu inviata a Firenze, dove l'aspettava il suo sposo, con una scorta formata da membri di entrambi i casati. Inès si sposó vergine e virtuosa. Il marchese era della nobile razza di Carlomagno e l'impressione che si fece Inès di suo marito la prima volta che lo vide fu che il fiorentino portasse nella sua umanità il volume di tutti i suoi illustri antenati e l'età di tutte le insigni generazioni carolinge. Non immaginava che suo marito fosse un uomo vecchio e obeso, ma neanche il contrario. Inès fu una buona sposa che offrì a suo marito tutta la sua virtus in conjugio; sapeva esibire le nobili origini e, soprattutto la "casta", cioè, la cristiana castità coniugale. Se la sposa, secondo quanto prescriveva il precetto apostolico, doveva spogliarsi di passione e "usare il marito come se non lo avesse", a Inès sicuramente non risultó difficile farlo; in effetti, entrava a stento nel letto nuziale accanto al suo enorme sposo. Non doveva frenare accessi di passione nè basse umidità . Non sentiva la minima attrazione per suo marito e, per la verità , verso nessun uomo. Si sarebbe detto che Inès non avesse mai sentito la minima inclinazione verso la sensualità . Niente le provocava piacere e, neanche, ripugnanza. Non sapeva nulla di gemiti e lamenti nè di pulsioni notturne. Per tutto il tempo del suo matrimonio, il marchese aveva avuto tre erezioni senili, tre volte si congiunsero e tre volte partorì la povera Inès senza sapere mai che cosa fosse la frenesia veneris. Come se una maledizione si fosse abbattuta sulla famiglia, proprio come sua madre, non ebbe maschi; furono tutte femmine; foglie secche per il malconcio albero genealogico carolingio. Una quarta erezione sarebbe stata un miracolo; ragion per cui stanco, indignato e scoraggiato, il marchese decise di morire. E così fece. Inès era una donna molto giovane. Si dedicava completamente ad allevare le sue tre colpe, non senza un qualche dispiacere per la memoria del suo defunto marito, non avendo potuto esaudire il di lui desiderio di formare un anello della sua nobile catena genealogica. Tutto il suo spirito si riversó sulla compassione, la misericordia, la carità e soprattutto su Dio. Nell'intimità della sua alcova, scriveva un'infinità di poesie in Sua lode. Pregava. Ed era una delle donne più ricche di Firenze. Portava avanti la sua vedovanza senza altro dispiacere che quello di non aver potuto rispettare la santità coniugale, la cui unità di misura è la gloria rappresentata da un figlio maschio. Per il resto, non serviva altro amore che quello di Dio. Non si vedeva privata della consolazione di un uomo; non rimpiangeva dolci delizie e non era nemmeno invasa da oscuri e peccaminosi pensieri perchè, in verità , non aveva mai conosciuto le prime ragion per cui non poteva immaginare i secondi. Tutti i beni che Inès aveva ereditato non erano sufficienti a lenire la pena di essere stata incapace di dare un maschio al suo defunto sposo. E dunque, per alleviare i dispiaceri e, soprattutto, per saldare la sua colpa in memoria del marito, decise di vendere gli oliveti, le viti e i castelli, e con questo denaro costruire un convento. Così, grazie a una esistenza di castità , avrebbe obbedito al dettame coniugale, servendo i figli che il suo ventre non aveva saputo generare: la comunità monastica e i poveri. E così fece. Sembrava che Inès procedesse senza ostacoli verso la santità , fino a che - è giusto dirlo ora - un uomo si interpose fra la sua vita diafana e la gloria eterna: Matteo Renaldo Colombo. Avrebbe potuto finire i suoi giorni come una vera santa. Fu d'estate che la sua salute si guastó a causa di una malattia sconosciuta. Si ritiró con le tre figlie in un'umile casa vicino al monastero da lei eretto e si decise ad aspettare la morte con cristiana rassegnazione. Lo spirito di Inès era diventato via via sempre più oscuro e pessimista; si rinchiuse in un mondo oscuro e tormentato. Ogni avvenimento più o meno insolito o, perfino, banale e quotidiano, diventava per lei un segno dei più neri vaticini; se le campane dell'abbazia suonavano per un qualche motivo, non poteva liberarsi dell'idea che rintoccavano per la morte di una delle sue figlie. Temeva per la salute dell'abate - che, al contrario, era di ferro - e, insomma, per quella di tutti coloro che le stavano vicino. Un qualunque banale raffreddore rivelava, senza ombra di dubbio, una fatale polmonite con conseguenze immediate e fatali. Con il tempo, tutti questi timori si ripiegarono sul suo spirito e sospettava di essere vittima delle più gravi malattie; una semplice irritazione della pelle era il sintomo che anticipava un'evoluzione in lebbra. Si sentiva incalzata dalla morte. Soffriva di interminabili insonnie durante il cui tenebroso corso il suo cuore pareva voler saltare fuori dal petto, soffriva di penosi soffocamenti che le davano la certezza di un'asfissia mortale ed era colta da improvvise crisi di sudore freddo. Nella solitudine del suo letto, immaginava come sarebbe stato il suo corpo dopo la morte e si tormentava all'idea della decomposizione della sua giovane umanità . Ben presto tutti questi angoscianti malesseri si andarono estendendo oltre la frontiera della notte, fino ad occupare completamente la sua vita. Poco a poco, a causa delle vertigini che sembravano far crollare il pavimento sotto i suoi piedi, Inès decise di rifugiarsi definitivamente nel suo letto in attesa di quel che Dio disponesse. Ma non trovava tranquillità nè consolazione nemmeno in Dio, cosa che contribuiva, ancora di più, ai suoi tormenti, perchè proprio per questo metteva in crisi la sua devota coscienza e non poteva neppure più aspettare la morte con cristiana rassegnazione. Inès aveva proprio l'aspetto di chi entra in agonia. Vedendo che la salute di Inès peggiorava irrimediabilmente, l'abate si ricordó che a Padova un chirurgo aveva salvato miracolosamente la vita di un agonizzante, un fatto che, all'epoca, era stato molto commentato. Ragion per cui, senza esitare, intercedette presso il suo illustre cugino vicino ai Medici il quale, senza badare a spese, le fece avere mille fiorini per gli onorari dell'eminenza e altri cinquecento per il viaggio e altre eventualità che potessero occorrere. La scoperta L'impressione che Matteo Colombo si fece della malata fu, nell'immediato, che si trattava di una donna infinitamente bella e, in secondo luogo, che la sua non era una malattia frequente. Inès era distesa sul letto, esanime e incosciente. Esaminó gli occhi e la gola. Le palpó la testa e ispezionó le orecchie. L'abate seguiva i movimenti del medico con diffidente curiosità . Le tastó le caviglie e i polsi e pregó l'abate di lasciarlo solo con l'ammalata insieme al suo "discepolo" Bertino. Seppure con qualche preoccupazione, l'abate abbandonó la stanza. Matteo Colombo pregó Bertino di aiutarlo a svestire la paziente. Forse nessuno avrebbe potuto sospettare che sotto quegli austeri indumenti esistesse una donna di una bellezza straordinaria, come testimoniavano le mani del discepolo, che tremavano come foglie a ogni indumento tolto. "Non hai mai visto una donna nuda?" chiese Matteo Colombo a Bertino con qualche malizia, facendogli notare così che poteva trasformarsi nel delatore della spia del decano. "Sì, l'ho vista... ma non da viva... " esitó Bertino. "Bene, ti ricordo che ció che stai vedendo non è una donna, ma una malata", disse Matteo Colombo sottolineando nel pronunciare la differenza fra le due categorie. In verità , neanche Matteo Colombo aveva potuto sottrarsi alla bellezza della sua paziente, ma aveva il contegno di un esperto, riusciva a non manifestare alcun turbamento. E poi sapeva che un medico doveva far caso alle impressioni soggettive: intuiva che la sua inquietudine e il suo turbamento non erano estranei alla malattia dell'inferma. Esaminó il tono muscolare del ventre e il ritmo della respirazione. Poichè Bertino tardava nell'eseguire il suo compito, ordinó al discepolo di sbrigarsi una buona volta a togliere gli abiti all'inferma. Nel momento stesso in cui l'anatomista si accingeva a prendere il polso, Bertino proruppe in un grido di spavento. "àˆ un uomo! àˆ un uomo!" strillava mentre si faceva il segno della croce e invocava tutti i santi del cielo. "Il potere di Dio sia con me!" implorava con una smorfia di terrore. Matteo Colombo pensó che Bertino fosse diventato completamente pazzo. Il maestro si raddrizzó e cercó di calmare il suo discepolo, quando, con suo stupore, potè vedere, fra le gambe dell'inferma, una perfetta, eretta e minuscola verga. L'anatomista ingiunse al suo discepolo di smetterla di gridare. Certamente quella scoperta, qualunque cosa fosse, metteva in pericolo la vita - già abbastanza fragile - dell'inferma. Matteo Colombo si ricordó immediatamente di un caso che, cinquanta anni prima, aveva portato sul rogo un uomo che presentava l'aspetto di una donna e che, sfruttando le sue forme femminili, esercitava la prostituzione. Eppure, Inès de Torremolinos presentava un'anatomia completamente femminile e, certamente, le sue tre figlie erano la testimonianza della sua altrettanto femminile fisiologia. Tuttavia, sotto il naso attonito del maestro e del suo discepolo, si ergeva quel piccolo organo davanti ai loro occhi sbalorditi sgranati come due paia di fiorini d'oro. L'ipotesi che meglio si adattava alla situazione era quella dell'ermafroditismo. Le antiche cronache dei medici arabi ed egiziani riferivano di numerosi casi di esseri che presentavano i due sessi nello stesso corpo. Anche l'anatomista aveva potuto constatare un caso di ermafroditismo in un cane. Tuttavia, neppure questa congiuntura collimava con i fatti: la caratteristica comune segnalata da tutte le cronache mediche non lasciava dubbi circa il fatto che una simile anomalia significava l'atrofia completa di entrambi gli organi sessuali, quello maschile e quello femminile, rendendo così impossibile la riproduzione. Oltre alle tre creature che Inès de Torremolinos aveva fatto venire al mondo, era evidente che quel piccolo organo non appariva per nulla atrofizzato; al contrario, era infiammato, palpitante e umido. Spinto dalla pura intuizione, l'anatomista prese fra il pollice e l'indice quella innominata parte e con l'indice dell'altra mano cominció a sfregare dolcemente il minuscolo glande, rosso e infiammato. La prima reazione che Matteo Colombo potè osservare fu che tutta la muscolatura del corpo dell'inferma - che fino a quel momento era stata completamente inerte - acquistó un'improvvisa e involontaria tensione mentre quell'organo cresceva un po' in grandezza e si dimenava in brevi contorsioni. "Si muove!" gridó Bertino. "Silenzio! O vuoi che se ne accorga l'abate?" Matteo Colombo continuava a sfregare fra le dita quella protuberanza, come chi sfrega uno sterpo contro una pietra per ottenere il fuoco. All'improvviso, come se finalmente fosse riuscito ad accendere la scintilla del fuoco, tutto il corpo di Inès si dimenó in una grande convulsione che le fece sollevare le natiche e restare appoggiata solo con le caviglie e la nuca, a somiglianza di un arco. Poco a poco la sua vita cominció a muoversi, seguendo la regolarità , il ritmo delle dita dell'anatomista. La respirazione di Inès si fece agitata; il cuore, si sarebbe detto, le galoppava nel petto e tutto il suo corpo brilló improvvisamente per una sudorazione generale, riproducendo, in virtù di quello sfregamento che le prodigava l'anatomista, ciascuno dei penosi sintomi che la spaventavano durante la notte. Eppure, nonostante Inès restasse incosciente, non sembrava che quella seduta le riuscisse, a onor del vero, penosa. La respirazione di Inès andó acquistando un suono soffocato che si trasformó in un ansimare sonoro. Il suo atteggiamento esanime si trasformó in una smorfia lasciva: la bocca, socchiusa, lasciava intravedere la lingua che si agitava fra le labbra. Bertino, il discepolo, si fece il segno della croce. Non riusciva a capire se quello fosse un esorcismo o se, al contrario, il suo maestro stesse mettendo il diavolo nel corpo di Inès. Quasi svenne nel vedere che, all'improvviso, la malata aprì gli occhi, si guardó intorno e, completamente in sè, si abbandonó alla diabolica cerimonia dell'anatomista. I capezzoli di Inès si erano infiammati ed eretti e ora era proprio lei a toccarseli con le sue stesse dita senza smettere di guardare quello sconosciuto con lascivia, mentre biascicava delle parole incomprensibili in spagnolo. Sembrava proprio che Inès fosse passata dall'agonia alla frenesia veneris. Totalmente cosciente - se così si puó dire - Inès afferró la sbarra della testata del suo rozzo letto. Fra lamenti, convulsioni e "come osate" minacciosamente sospirati, Inès lasciava fare. "Come osate?" mormorava mentre passava la lingua sui capezzoli. "Sono una donna casta", diceva mentre si inumidiva le dita sulle labbra. "Come osate?" sospirava e allora spalancava le cosce il più possibile. "Sono madre di tre figlie", diceva senza smettere di accarezzarsi i capezzoli e "come osate", implorava e poi lasciava fare. Quello dell'anatomista non era un compito facile; da un lato doveva sottrarsi alla contagiosa eccitazione della malata e, dall'altro, evitare che quella stessa eccitazione scemasse. Inoltre Bertino - che continuava a segnarsi - non la smetteva di fare domande, esclamazioni e addirittura si permise di minacciare il suo maestro: "State commettendo un sacrilegio, profanazione!". "Vuoi chiudere quella bocca e tenerle le braccia ferme?". Sconvolto come era, Bertino obbedì. "Non le mie, idiota, quelle dell'ammalata!". "Come osate?" sussurrava Inès. "Sono vedova", diceva e poi muoveva le cosce investendo le mani dell'anatomista. "Come osate?" piagnucolava. "Due uomini contro una povera donna indifesa", diceva e allora tendeva la mano verso la verga del discepolo, le cui suppliche a Dio non impedivano che cominciasse a avercelo un po' duro, cosa che, naturalmente, assicurava all'anatomista il silenzio di Bertino. "Come osate!" mormorava Inès. "Se non vi ho mai visto prima d'ora!". Matteo Colombo rimase dieci giorni a Firenze con la sua malata. Dieci giorni durante i quali Inès si ristabilì completamente, almeno dalle sue precedenti sofferenze. L'anatomista, d'accordo con l'abate, prese alloggio in una cella del monastero la cui vicinanza alla casa dell'inferma gli permetteva di non interrompere la sua segreta cura. Peró Inès consideró che era un'imperdonabile mancanza di ospitalità e lo fece alloggiare in casa sua. Gli preparó un'accogliente stanza accanto alla propria. Inès non era la donna lasciva che aveva conosciuto Matteo Colombo. Al contrario aveva l'aspetto di una santa; era estremamente pudica nel vestire, riservata nel suo fare e nel suo dire. Eppure, al momento di sottoporsi alle cure dell'anatomista, sembrava che dal suo corpo si facesse largo uno spirito diabolico illimitato che travolgeva la barriera del pudore e che si ritirava solo dopo che era arrivata all'estasi, dopo di che Inès ritornava alla sua modestia. L'inferma fingeva di ribellarsi al piacere attraverso dei leggerissimi "Come osate?" che peró assomigliavano più a un gemito di godimento che a una lamentela. Finite le sedute non accennava a nessun particolare, come se non serbasse memoria di quanto era accaduto nell'alcova o come se non avesse più importanza che il prendere delle erbe medicinali. Con l'avanzare della cura, quella misteriosa protuberanza che presentava la forma di un vero e proprio pene andava rimpicciolendo proprio come le sofferenze dell'inferma. Per il resto, Inès sembrava trovarsi a suo agio in compagnia di Matteo Colombo. Al mattino passeggiavano nel viale di bosso del bosco confinante con il monastero e intorno al mezzogiorno sedevano all'ombra di un rovere a mangiare fragole e more di bosco. A metà pomeriggio, Inès e l'anatomista rientravano a casa, si chiudevano in camera da letto e allora iniziava la cura. Inès si sdraiava docilmente sul letto, faceva scivolare le gonne lungo le cosce, allargava un poco le ginocchia mentre inarcava le spalle sollevando le natiche, dolci e sporgenti, e si offriva alle mani dell'anatomista chiudendo gli occhi e stringendo le labbra ancora umide e colorate dal succo delle more. E ogni mattina Matteo Colombo e la sua paziente uscivano a passeggiare nel bosco confinante con l'abbazia e dopo mezzogiorno entravano a casa e "come osate, anche se non porto l'abito sono una donna consacrata". E ogni sera, dopo una cena frugale e tranquilla, "come osate, ho giurato sulla memoria del mio defunto di osservare castità e celibato". Matteo Colombo, da parte sua, stava bene a Firenze. Il motivo del soggiorno di Matteo Colombo non era solamente quello di vegliare sulla salute della sua paziente; cosa era quel piccolo organo innominato che si comportava proprio come un sesso maschile? Che cos'era quella minuscola mostruosità che si affacciava orribilmente dal pube femminile di Inès? Inès era una donna? Si trovava di fronte a una mostruosità della natura o, come sospettava, alla più incredibile scoperta della misteriosa anatomia femminile?
di Federico Andahazi
Nell'Italia del '500, un medico innamorato cerca la sede del piacere femminile. Primo romanzo di un giovane psicanalista argentino, arriva anche da noi, edito da Frassinelli, il libro che ha conquistato il mondo. E che diventerà un film con Antonio Banderas
Il fattore Massimo Troglio era il fattore di puttane più prestigioso d'Europa. àˆ vero che comprava, vendeva e perfino rubava come qualsiasi trafficante. Ma questo era solo il principio di un lungo e laborioso lavoro, il primo anello di un costosissimo e proporzionalmente redditizio mestiere. Massimo Troglio era, eminentemente, un pedagogo, un miscuglio del più miserabile pedofilo e del più sublime maestro. Il Fattore - come lo chiamava qualcuno - era il fondatore della più prestigiosa Scuola di Puttane; padre, per così dire, della razza di puttane più sublime di Venezia, addirittura di Lena Grifa e di tutte le puttane che adornarono la corte dei Medici, delle puttane che imprigionarono il cuore di monarchi e arcivescovi. Di tutte le puttane in onore delle quali furono innalzati i palazzi più fastosi di Venezia. Nemmeno un'imperatrice riceveva l'educazione della meno brillante delle puttane di Massimo Troglio. Le più giovani, come Ninna Sofia, erano oggetto delle cure più attente. Le madonne- le puttane più anziane - si incaricavano di far da tutrici a quelle in più tenera età . Si preoccupavano di far loro il bagno con latte di lupa, poichè l'acqua era stata proibita dopo le grandi epidemie e, secondo gli insegnamenti di Massimo Troglio, il latte di lupa affrettava la crescita ed evitava la decrepitezza; sfregavano la loro pelle con saliva di giumenta per impedire che le carni crescessero molli e, un giorno alla settimana, le facevano dormire in una stalla insieme ai maiali affinchè apprendessero a sopportare i fetori più ripugnanti e le compagnie più sgradevoli. Massimo Troglio fu l'autore di Scuola di Puttane, una serie di 715 aforismi divisi in sette libri e ispirati senza dubbio agli Aforismi di Ippocrate. Fra le altre corse, sosteneva che le puttane migliori e più leali erano quelle nate da: 1. falegname e mungitrice; 2. cacciatore e donna mongola, possibilmente cinese; 3. marinaio e ricamatrice. Affermava poi che "una donna puó concepire un figlio addirittura da sette uomini i cui succhi seminali si uniscono nell'utero e si combinano gli uni con gli altri a seconda della forza seminale di ciascuno dei padri". "Quella del Fattore di Puttane è l'arte più sublime; più di quella di creatore di profumi e di quella dell'alchimista; come questi, uniamo le essenze più nobili con quelle più vili, quelle più antagoniste e quelle più simpatiche". Massimo Troglio si mostrava particolarmente interessato a quella piccola che il cielo gli aveva inviato. Affinchè non vi fosse alcun dubbio che era una delle sue pupille, le tolse il braccialetto e gliene fece fare un altro - di oro e rubini - dove spiccava il suo nuovo e definitivo nome: Monna Sofia. Poche volte aveva visto una bambina con un carattere simile, con tanta e così precoce intelligenza e, soprattutto, dotata di quella singolare e straordinaria bellezza. Monna Sofia era la sintesi di tutte le puttane messa in un corpo di bambina, una specie di estratto di puttana allo stato puro. Eppure, Monna Sofia non era esente dai due grandi e, di certo, misteriosi problemi contro cui deve combattere un maestro di puttane: l'amore e il piacere. Massimo Troglio non aveva mai visto un odio così incommensurabile come quello che gli dimostrava la piccola, e non perchè lo preoccupasse essere oggetto di un tale sentimento, ma perchè, a quanto gli insegnava l'esperienza - e così recitata l'aforisma IX - "quanto più una donna è proclive all'odio, tanto più è proclive all'amore". La seconda preoccupazione non era, in se stessa, l'assenza di qualsiasi manifestazione di dolore, ma il sospetto che dietro la maschera dell'insensibilità , quanto più intenso era il dolore per Monna Sofia, tanto più intenso era il piacere che le provocava. E, infine, i primi cicli di formazione di una puttana non avevano altro scopo mediato che l'interdizione dell'amore e del piacere. L'investimento era troppo grande e richiedeva troppa pazienza per permettere che - come era successo più di una volta - un bel giorno l'ingrata se ne andasse, innamorata cotta, dietro un qualsiasi uomo. Fra questi aforismi, Massimo Troglio scrisse: "Corrompere è più difficile che educare. àˆ più facile rimpiazzare un sistema morale con un altro che spogliare qualcuno della propria morale. L'educazione nella morale favorisce l'educazione delle puttane. Come il filosofo, il maestro di puttane deve essere veicolo della morale. àˆ più conveniente per il monarca l'esistenza di puttane per denaro che l'esistenza di puttane per piacere". Massimo Troglio basava tutta la sua teoria sui canoni ellenici. Le massime che guidavano la sua penna e, di conseguenza, la sua pratica, erano - è ovvio - quelle della Metafisica di Aristotele. Aristotelica era la sua concezione della donna e dell'uomo e aristotelico, naturalmente, era il suo giudizio sulla procreazione; si abbeverava anche alla fonte aristotelica per spiegare in che modo "l'uomo deve servirsi, per causa naturale, del profitto della donna". Nel capitolo "Sulla mostruosa condizione femminile", diceva: "Come insegna il Maestro Aristotele, lo sperma dell'uomo è l'essenza, la potenzialità essenziale che trasmette la virtualità formale del futuro essere. L'uomo reca nel suo seme l'alito, la forma, l'identità , cioè la kinesis che fa della cosa una materia viva. L'uomo, in fine, è colui che dà l'anima alla cosa. Il seme ha il movimento che gli imprime il suo progenitore, è l'esecuzione di un'idea che corrisponde alla forma del genitore stesso, senza che ció implichi la trasmissione di materia da parte dell'uomo. In condizioni ideali, il futuro tenderà all'identità completa del padre. La donna apporta il sostentamento materiale del suo sangue, la corporeità , la carne che invecchia, si corrompe e muore. L'essenza dell'anima è sempre maschile. Come ha insegnato il Maestro, la procreazione di bambine è, in ogni caso, prodotto delle debolezza del progenitore a causa di una malattia, della vecchiaia o della precocità . "La donna fornisce sempre la materia e l'uomo il principio creatore: per noi è questa, in effetti, la funzione propria di ciascuno dei due, e questo significa essere femmina o maschio. àˆ necessario pure che la femmina fornisca un corpo, una determinata quantità di materia, mentre ció non è necessario per il maschio: non è necessario che gli strumenti esistano nei prodotti che vengono fabbricati e neanche che in essi esista l'agente che li produce". Quella di Massimo Troglio non è solamente una nozione intorno al concepire, ma anche - e sempre sotto l'egida intellettuale di Aristotele - della genealogia stessa dell'essere vivente: "Il seme è un organo che possiede un movimento in atto". "Il seme non è una parte del feto in formazione, come nessuna particella di sostanza passa dal falegname all'oggetto da lui elaborato per unirsi al legno, così nessuna particella di seme puó intervenire nella composizione dell'embrione". Ed esemplifica: "La musica non è lo strumento, nè lo strumento è la musica. E tuttavia, la musica è identica all'idea dell'autore". àˆ facile dedurre quale fosse il nodo della teoria di Massimo Troglio: la proprietà , la patria potestà , il diritto al possesso della discendenza da parte dell'autore, cioè il padre. Così come è chiaro che il proposito di Aristotele altro non era che la riaffermazione del Diritto greco. La donna, questa è la teoria, era del tutto residuale e la sua essenza era quel sangue che appare una volta al mese; una massa di liquido crudo, impuro, non elaborato, inerte e amorfo, ma, naturalmente, toccato dall'alito, la kinesis, del suo debole progenitore. Per cui quest'ultima rivelazione aristotelica è quella che gli propone il metodo, il modo di produzione e di appropriazione delle donne. Monna Sofia era la più bella e la più precocemente sviluppata delle discepole di Massimo Troglio. Inoltre dimostrava una prematura predisposizione al mestiere. Aveva una sensualità poco frequente in una bambina della sua età . Quando compì sei anni, Massimo Troglio decise che ormai poteva cominciare la seconda tappa della sua formazione. Nella Scuola di Puttane le pupille ricevano fin da giovanissime un'educazione religiosa, si insegnava loro la mitologia antica e apprendevano, naturalmente, a leggere e a scrivere, non solo in vernacolo ma addirittura in greco e latino. La Scuola era, fondamentalmente, un'istituzione rinascimentale, altrettanto prestigiosa di qualunque altra delle numerose scuole di pittura della penisola. Infatti riceveva un sussidio dalla municipalità e ciascuna delle pupille aveva il rango di funzionario pubblico. Monna adorava ascoltare le storie che le raccontava Filippa, la sua istitutrice. Ogni volta che sentiva come la balena inghiottiva Giona tutto intero, sgranava gli occhi smisuratamente e ingiungeva a Filippa di omettere le parti superflue del racconto per dirle rapidamente quale era stata la sorte dell'eroe. Tutto filava liscio fino a quando Filippa cominciava a incolparla. Monna negava decisamente di aver partecipato in qualche modo alla crocefissione di Nostro Signore Gesù Cristo e non riusciva a sopportare l'accusa che Lui fosse morto per causa sua. In fin dei conti, chi era lei? Che importanza poteva avere la sua insignificante esistenza nientemeno che nella sorte del Salvatore? Ugualmente, si dichiaró esente da ogni colpa e complicità nei peccati di Eva, che, d'altra parte, dichiarava di non avere mai visto. Eppure, a denti stretti, finiva con l'assentire chinando la testa senza troppa convinzione, perchè era capace di sopportare tutto meno gli acutissimi strilli di Filippa, che le rompevano i timpani. Massimo Troglio - a suo merito, o forse per sua colpa - fece di Monna Sofia la sua opera più sublime. Dieci anni di educazione e di cure avevano dato il loro frutto: era la donna più bella di Venezia. Il Fattore aveva saputo essere paziente; quando la sua pupilla compì tredici anni le annunció che era arrivato il momento dell'iniziazione. Monna debuttó in società nella festa di presentazione che, tutti gli anni, Massimo Troglio offriva nel suo palazzo. Si trattava di un'emozionante cerimonia in cui ogni diplomata riceveva la nomina di funzionaria pubblica dalle mani di qualche notabile dello Stato della Repubblica. Quando venne annunciata Monna Sofia, sopravvenne un silenzio fatto di venerazione e di stupore. La Venere medicea era una rozza contadina paragonata a quella donna che compariva sulla porte del salone. Da ogni parte d'Europa arrivavano nobili signori fino alla Scuola e pagavano vere e proprie fortune. In meno di sei mesi, Massimo Troglio aveva recuperato fino all'ultimo ducato investito nella sua pupilla. Nel corso del primo anno, il Fattore quintuplicó il totale del suo investimento. Il corpo di Monna Sofia aveva incrementato il patrimonio di Massimo Troglio di... duemila ducati! Di quando Matteo Colombo conobbe Monna Sofia Durante il suo breve soggiorno a Venezia nell'autunno del 1557, l'anatomista conobbe Monna Sofia. Accadde nel palazzo di un certo duca, in occasione della festa che l'anfitrione si concesse il giorno del proprio onomastico. Monna Sofia era ormai una donna adulta e sperimentata. Aveva quindici anni. Forse a causa della dichiarazione di Leonardo da Vinci sul fatto che non comprendeva come mai gli uomini si vergognassero della propria virilità e "nascondessero il loro sesso invece di adornarlo con grande solennità , come fosse un ministro", forse per questa ragione, quell'anno si era diffusa fra gli uomini la moda di esibire e adornare con gran pompa i genitali. Quasi tutti gli invitati, eccetto i più anziani, esibivano delle calze dai toni chiari che mettevano in mostra le parti intime dei loro proprietari grazie all'uso di nastri che passavano fra la vita e l'inguine, in modo da far risaltare le virilità . Coloro che avevano maggior motivo di essere grati al Creatore accettarono quella moda molto volentieri. Gli altri usavano diversi modi per adattarsi ai tempi senza doversi vergognare. Nella Bottega del Moro si vendevano delle imbottiture che andavano mese sotto le calze e che servivano, giustamente, per prestare grazia a uomini più o meno sgraziati. Fra i molteplici orpelli, dalle piccole pietre che incominciavano il "ministro" fino a decorazioni di perle molto vistose, si usava un nastro a cui erano legate quattro o cinque campanelle che rivelavano lo stato d'animo di "sua signoria". Così le dame potevano accorgersi dell'entusiasmo che suscitavano fra i cavalieri, a seconda dello scampanio dei sonaglietti. Era quella una festa come le altre: prima si balló la danza del bacio che non aveva altre regole che quella di muoversi a proprio piacimento, con l'unica condizione che, nel formarsi o sciogliersi della coppia, lo si facesse con un bacio. Matteo Colombo si manteneva lontano dai passi di ballo e, sebbene non fosse un uomo vecchio, vestiva in modo tradizionale, cosa che, fra tanta esibizione di chiappe maschili, gli conferiva un'aria importante. E in verità si vide premiato da più sguardi femminili di coloro che ostentavano i propri maestosi campanili, autentici o posticci. La festa non era ancora giunta a metà , quando comparve Monna Sofia. Non ci fu bisogno di annunciarla. I suoi due schiavi mori la fecero discendere dalla portantina vicino al vano della porta del salone. Se fino a quel momento c'erano tre o quattro donne che accaparravano l'attenzione, la più bella fra loro non potè evitare di sentirsi storpia, zoppa o gobba se paragonata alla nuova arrivata. Monna Sofia aveva una statura augusta. Indossava un vestito la cui gonna si apriva fino all'inizio delle cosce. La seta lasciava trasparire perfettamente tutto il suo corpo. I seni si agitavano a ogni passo sul bordo della scollatura che lasciava vedere la metà del diametro dei capezzoli. Sulla fronte le pendeva uno smeraldo il cui scopo era quello di sottolineare ancora di più lo splendore dei suoi occhi verdi. Monna Sofia fu ricevuta da un vero e proprio carillon, da un centinaio di virili scampanellate. Matteo Colombo se ne restó in un angolo solitario del salone. Neanche l'anatomista aveva potuto sottrarsi alla bellezza della nuova arrivata. E in effetti osó lasciare a metà il discorso di una dama ipocondriaca che non la finiva di enumerare i suoi malanni e dalla quale non sapeva come liberarsi. Monna Sofia fu ricevuta dall'anfitrione che, immediatamente, la coinvolse nel ballo del bacio. Secondo la regola, il cavaliere doveva invitare la dama con un bacio e, dopo aver eseguito qualche figura, la dama doveva sostituire il suo cavaliere con un altro e così successivamente. Naturalmente era un ballo propizio alla seduzione; le regole erano le seguenti: se una dama non era interessata ad alcun cavaliere, allora la soluzione di compromesso consisteva nell'invitare a ballare un uomo sposato. Se invece la dama sceglieva uno scapolo, le intenzioni risultavano chiare. Ma esistevano anche delle norme quanto al bacio; se la dama sfiorava appena la guancia del cavaliere, non aveva altro proposito che quello di ballare e di divertirsi un po'; invece un bacio affettuoso indicava intenzioni più o meno formali, per esempio, di matrimonio. Ma se il bacio sfiorava le labbra del cavaliere, i propositi lascivi della dama risultavano chiari; si trattava di un puro e semplice invito al sesso. Monna Lisa ballava una danza che si sarebbe detta orientale: con entrambe le mani si cingeva la vita mentre faceva ondeggiare i fianchi. Tutti aspettavano con curiosa ansietà il momento in cui avrebbe dovuto scegliere un nuovo cavaliere; ragione per cui tutti i giovani si contendevano la prima fila, esibendo, senza risparmiarsi alcuna oscenità , i loro voluminosi animi adorni. Peró Monna Sofia aveva conosciuto in altre circostanze più d'uno di quei cavalieri senza altro ornamento che quello con cui erano venuti al mondo e che ora ostentavano delle inesplicabili virilità . Guardava ognuno di coloro che speravano di essere eletti, si rivolgeva a qualcuno di loro e a quel punto, quando sembrava che si fosse decisa, girava sui tacchi e si avviava verso un altro uomo, a cui, poi, faceva lo stesso sgarbo. Sempre muovendosi al ritmo dei liuti, Monna Sofia si fece largo fra un gruppo di euforici corteggiatori fino a oltrepassarli e, allora, Matteo Colombo riuscì a vedere come i seni di Monna, che tremavano sull'orlo della scollatura, lo indicassero con i loro capezzoli. Monna Sofia camminava decisa verso l'anatomista. In altre circostanze, Matteo Colombo si sarebbe vergognato; invece, ora, mentre vedeva avanzare quella donna che lo guardava come mai prima si era sentito guardare, non potè evitare l'impressione che in quel salone non ci fosse altri che lei. Eppure poteva sentire il chiasso degli altri e della musica dei liuti; poteva perfino vedere la folla degli invitati. Sentiva, esattamente, quello che sente un topolino davanti a un serpente. Non poteva, neanche volendo, guardare altro che non quegli occhi verdi che facevano impallidire lo smeraldo posato fra le sopracciglia. Monna Sofia avvicinó le labbra a quelle dell'anatomista - poteva sentire il suo alito di menta e di acqua di rose - e allora, come una brezza calda, effimera, potè sentire all'angolo delle labbra la breve carezza della lingua di Monna Sofia. Balló, sì; non perse la compostezza, no; fu galante. Riuscì perfino a dissimulare il fatto che, da quella volta fino al giorno della sua morte, non avrebbe più potuto fare a meno di quell'alito di menta e acqua di rose, di quella brezza calda ed effimera, del conforto di quegli occhi verdi. Balló. Nessuno avrebbe detto che, come la vittima di un serpente il cui veleno va invadendo, implacabile, il sangue, quell'uomo austero che ballava si era appena ammalato mortalmente. Balló. Per sempre, fino al giorno della sua morte, avrebbe ricordato di aver ballato sotto l'incantesimo di quegli occhi maliziosi; fino all'ultimo giorno come si commemora l'anniversario di un martire, avrebbe ricordato che attraversarono corridoi, giardini e gallerie e che, in una recondita alcova del palazzo, con il lontano sussurro dei liuti, potè baciare quei rosei capezzoli, duri come perle ma più fini del petalo di un fiore. Fino al giorno della sua morte avrebbe ricordato, come una ricorrenza lugubre eppure tanto dolce, quella voce di legna crepitante, le stregonerie di quella lingua la cui materia era la stessa del fuoco dell'inferno. Fino all'ultimo giorno avrebbe ricordato che, come colui che ha fatto promessa di digiuno e rinuncia al cibo consentito per prolungare l'ansia di mangiare, così rifiutó il suo corpo e invece, aggiustandosi la veste, le disse: "Voglio farvi il ritratto". E, come il naufrago che confonde le nubi dell'orizzonte con la terraferma, credette di vedere amore in quegli occhi verdi pieni di ciglia ricurve. Ma non erano che nubi. "Voglio farvi il ritratto", ripetè con l'animo turbato dall'emozione. E credette di vedere emozione negli occhi del serpente. Monna Lisa lo bació con tenerezza infinita. "Potete venire a trovarmi quando volete", disse e con un sussurro aggiunse: "Venite domani stesso". L'anatomista la vide sistemarsi gli abiti, vide come per l'ultima volta gli offriva i capezzoli duri per farseli baciare e la vide girare sui tacchi e dirigersi verso la porta. Allora udì che gli diceva, prima di perdersi dall'altro lato: "Venite domani, vi aspetto". Ma non erano che nubi. Il giorno seguente, alle cinque in punto della sera, Matteo Colombo salì i sette gradini dell'atrio del bordello del Fauno Rosso. Portava il suo cavalletto da viaggio in spalla, la tela sul petto, la tavolozza sotto il braccio destro, e la sacca con gli oli appesa alla cintura della veste. Arrivava così carico che per poco non travolse l'amministratrice. Quando Matteo Colombo si affacció al vano della porta, Monna Sofia, coperta da un tulle trasparente, stava finendo di intrecciarsi i capelli davanti allo specchio del suo tavolo da toletta. L'anatomista, che stava ancora in piedi con tutto il suo bagaglio addosso, potè vedere nello specchio quegli stessi occhi nei quali il giorno prima aveva visto l'amore. Ed ora erano lì, solo per lui, per i suoi occhi. E allora si annunció schiarendosi la voce. Senza girarsi, senza neanche guardare, Monna Sofia fece un gesto d'invito con la mano. "Vengo a farvi il ritratto". Senza girarsi, senza neanche guardare, Monna Sofia dichiaró: "Ció che farete durante la visita mi è completamente indifferente", disse, e aggiunse immediatamente: "Se non lo sapete, la tariffa è di dieci ducati". "Vi ricordate di me?" mormoró Matteo Colombo. "Se riuscissi a guardarvi in faccia... " disse al suo anonimo interlocutore la cui faccia era coperta dalla tela che portava. Allora l'anatomista posó le sue carabattole a terra. Monna Sofia lo esaminó dallo specchio. "Non credo di avervi visto prima", titubó e, a scanso di equivoci, gli ricordó di nuovo la tariffa: "Dieci ducati". Matteo Colombo lasció i dieci ducati sul comodino, srotoló la tela, la mise sul cavalletto, estrasse i colori a olio dal sacchetto che pendeva dalla sua cintura, preparó i pennelli e, senza dire una parola, cominció il ritratto che avrebbe intitolato Donna innamorata. Ogni giorno, quando gli automi della Torre davano il quinto rintocco, Matteo Colombo saliva i sette gradini che conducevano all'atrio del bordello di calle Bocciari, entrava nell'alcova di Monna, lasciava dieci ducati sul comodino e, mentre sistemava la tela, senza neanche togliersi il mantello, diceva a Monna di amarla e che, anche se lei non ne voleva sapere, lui poteva leggere l'amore nei suoi occhi. Fra una pennellata e l'altra la supplicava di abbandonare quel bordello e di andar via con lui, dall'altra parte del Monte Veldo, a Padova, che se lei voleva così era disposto ad abbandonare la sua cattedra all'università . E Monna, nuda sul letto, i capezzoli duri come mandorle e lisci come i petali di un fiore, fissava la Torre dell'Orologio che si innalzava dall'altra parte della finestra, aspettando che le campane rintoccassero una buona volta. E quando finalmente lo facevano, lo guardava con gli occhi pieni di malizia: "Il tuo tempo è scaduto", diceva e si dirigeva verso la toletta. E ogni giorno, alle cinque della sera, quando le ombre delle colonne di San Teodoro e quella del leone alato si fondono in un'unica e obliqua frangia che attraversa la piazza San Marco, l'anatomista arrivava al bordello con il suo cavalletto, la sua tela e i suoi colori, lasciava i dieci ducati sul comodino e non si toglieva nemmeno la veste. Mentre mescolava i colori sulla tavolozza, le diceva di amarla, che anche se lei stessa lo ignorava, lui sapeva capire quando l'amore si impossessava di uno sguardo. Le diceva che nemmeno la mano di un dio avrebbe potuto imitare tanta bellezza, che se l'amministratrice non approvava il matrimonio, era disposto a pagare per lei tutto il denaro che possedeva, di lasciare quel postribolo infame e di andarsene insieme a lui nella sua casa natale a Cremona. E Monna Sofia, che sembrava non lo ascoltasse nemmeno, si accarezzava le cosce lisce e sode e tornite come il legno, e aspettava che suonasse il primo dei sei rintocchi che indicava che il tempo del suo cliente era finito. E ogni giorno, alle cinque in punto della sera, quando le acque del canale cominciavano a salire sulle gradinate, Matteo Colombo arrivava al bordello di calle Bocciari, vicino a Santa Trinità e, senza nemmeno togliersi la berretta che gli copriva la nuca, lasciava i dieci ducati sul comodino e, mentre sistemava la tela sul cavalletto, le diceva che l'amava, di fuggire insieme dall'altro lato del Monte Veldo o, se era necessario, dall'altro lato del Mediterraneo. E Monna, chiusa nel suo cinico mutismo, nel suo silenzio malizioso, si accomodava la treccia oltre la vita, si accarezzava i capezzoli e non si scomodava nemmeno per vedere i progressi del ritratto. Non guardava altro che l'Orologio della Torre, in attesa che, finalmente, rintoccasse per poter pronunciare le uniche parole delle quali sembrava essere capace. "Il tempo è scaduto". E ogni giorno, alle cinque della sera, quando il sole era una tiepida virtualità moltiplicata per cinque sulle cupole della Basilica di San Marco, l'anatomista, carico di sacche, stringhe e umiliazione, lasciava dieci ducati sul comodino e fra l'acre profumo degli oli e del sesso altrui, le diceva che l'amava, che era disposto a disfarsi di tutto quanto possedeva per comprarla, che sarebbero fuggiti dall'altra parte del Mediterraneo o, se era necessario, nelle terre nuove dall'altra parte dell'Atlantico. E Monna, senza dire una parola, accarezzava il pappagallo che dormicchiava sulla sua spalla, come se in quell'alcova non ci fosse nessun altro, aspettava che gli automi della Torre dell'Orologio si decidessero a muoversi e allora, con gli occhi pieni di una malizia sensuale, diceva: "Il tempo è finito". E durante tutto il suo soggiorno a Venezia, tutti i giorni, alle cinque in punto della sera, l'anatomista arrivava al bordello di calle Bocciari vino a Santa Trinità e le diceva che l'amava. E così fu fino a quando l'anatomista terminó il ritratto e, naturalmente, terminó tutto il suo denaro. Il suo tempo a Venezia era finito. Umiliato, povero, con il cuore a pezzi e senza altra compagnia che quella del suo corvo Leonardino, Matteo Colombo ritornó a Padova con una sola convinzione. Inès de Torremolinos Di ritorno a Padova lo attendevano due notizie: una buona e una cattiva. Quella cattiva si riferiva allo stato d'animo del decano. "Si dicono molte cose di voi a Padova", cominció col dirgli Alessandro da Legnano. "E per la verità , nessuna buona". Il decano informó l'anatomista che Beatrice, la pupilla del postribolo della Taverna del Mulo, era stata condotta in giudizio e bruciata come strega. "Nella sua dichiarazione vi ha nominato", disse laconico il decano. Matteo Colombo restó in silenzio. "Quanto a me", proseguì il decano, "vi condurrei davanti al Tribunale dell'Inquisizione oggi stesso", disse e potè notare che il suo interlocutore impallidiva, "tuttavia la fortuna sembra stare dalla vostra parte". Allora gli comunicó che un certo abate, parente dei Medici, aveva ordinato di chiamare l'anatomista a Firenze. Una dama di Castiglia - vedova di un nobile signore fiorentino, il marchese di Malagamba - stava agonizzando e un altissimo duca vicino ai Medici aveva contrattato i servigi dell'anatomista. Aveva pagato come anticipo mille fiorini e altri cinquecento ne pagherebbe nel caso avesse bisogno della collaborazione di un apprendista o di un aiutante. Il decano consideró una proposta giusta archiviare la faccenda di Beatrice e le testimonianze di Laverda e di Calandra, in cambio degli onorari offerti al suo cattedratico. "Partirete domani stesso per Firenze", concluse Alessandro da Legnano e, prima di congedare Matteo Colombo, aggiunse: "Quanto all'apprendista, con voi viaggerà Bertino. àˆ già deciso". A nulla sarebbe valso protestare. Matteo Colombo si limitó ad assentire; in verità il decano non gli lasciava nessun margine di negoziazione. Bertino si chiamava Alberto e portava lo stesso cognome del decano. Nessuno sapeva con esattezza che parentela li unisse. Ma Bertino era gli occhi e le orecchie di Alessandro da Legnano, un giovane un tantino più idiota del suo protettore, che, a Firenze, si sarebbe trasformato nell'ombra dell'anatomista. Inès era la maggiore delle figlie della nobile coppia formata da Don Rodrigo Torremolinos, conte di Urquijo e signore di Navarra, e Isabella d'Alba, duchessa di Cuernavaca e contessa di Urquijo. Con dispiacere del padre, la coppia non ebbe figli maschi. Così che, a causa della sua femminile "progenitura", la sua piccola altezza godeva pienamente della potestas e della divitia. Una simile genealogia e lignaggio, tuttavia, contrastavano con la sua precaria salute, con la pallida fragilità e con la sua minuscola e morbida figura. Come se quel corpicino fosse troppo piccolo e prematuro per ospitare un'anima, la bimba presentava un aspetto francamente esanime, non come se la vita la stesse per abbandonare, ma come se mai avesse alitato in lei. La culla dal fastoso baldacchino che era stata costruita per lei dal miglior ebanista di Castiglia era così grande che la piccola Inès diventava invisibile fra le pieghe della seta. A malapena si notava un segno di vita in certi orribili lamenti che, sempre, sembravano dover essere gli ultimi. L'ebanista, non appena ebbe terminato la culla, cominció a costruire il piccolo feretro. A mano a mano che si succedevano i giorni, la bambina perdeva volume, se così si poteva chiamare quella pura assenza. La nutrice, vedendo che la piccola Inès non aveva nemmeno la forza di aggrapparsi al capezzolo, l'aveva abbandonata definitivamente e, così sembrava, stava per ricevere l'ultimo sacramento prima di aver ricevuto il primo. Eppure, Dio sa come, la bimba sopravvisse. Poco a poco e come crescono dal nulla i teneri germogli su un ramo secco, la bambina andó guadagnando il codice dei vivi. A misura che la piccola Inès cresceva, nella stessa proporzione, ma inversamente, la fortuna famigliare illanguidiva. Gli olivi e le viti della casa che in altri tempi erano i più splendidi e generosi della penisola, e della cui abbondanza era testimone lo scudo famigliare, furono devastati dalla voracità di un'improvvisa epidemia che, da un giorno all'altro, fece seccare qualunque cosa presentasse una qualche volontà di rinverdire. Don Rodrigo, rovinato, senza altri beni se non la sua sconsolatezza e i suoi titoli, malediceva il ventre della moglie che, come i campi infetti prodighi soltanto di inutili sterpaglie, era stato incapace di fare un figlio maschio del suo sangue in grado, almeno, di portare a casa una dote. Era provato che l'unica cosa che riuscisse a generare la duchessa erano bimbe squallide. Disperato, Rodrigo andó a Firenze a chiedere aiuto al cugino, il marchese di Malagamba, a cui, oltre alla parentela, lo univa, in altri tempi, la coltivazione dell'olivo. Il nobile spagnolo imploró, pregó e perfino pianse. Il marchese si mostró un uomo dabbene, proclive alla comprensione e alla misericordia. Gli offrì consolazione, parole di coraggio e di fede; quanto al denaro, neanche un fiorino. Don Rodrigo tornó in Castiglia sconsolato. Eppure, l'estate seguente giunse un messaggero a casa del contrariato nobile castigliano. Recava un messaggio del marchese. Con sorpresa del conte, il fiorentino chiedeva la mano di sua figlia Inès e, in cambio, offriva a Don Rodrigo la somma di denaro che gli aveva chiesto l'anno passato. La proposta aveva una ragione: il marchese, vedovo, non aveva avuto discendenza, e dunque necessitava di un mezzo per ottenere un maschio legittimo, in altre parole, di una donna. D'altra parte, l'unione con il casato di Castiglia lo beneficiava in quanto, in questo modo, estendeva i suoi domini fino alla penisola iberica. Il messaggero partì alla volta di Firenze con l'assenso di Don Rodrigo. Inès, a quell'epoca, aveva appena tredici anni. Non vi fu corteggiamento nè seduzione, non esistettero lettere amorose nè regali, oltre a quello costituito, secondo i suoi genitori, dalla stessa Inès, la quale fu inviata a Firenze, dove l'aspettava il suo sposo, con una scorta formata da membri di entrambi i casati. Inès si sposó vergine e virtuosa. Il marchese era della nobile razza di Carlomagno e l'impressione che si fece Inès di suo marito la prima volta che lo vide fu che il fiorentino portasse nella sua umanità il volume di tutti i suoi illustri antenati e l'età di tutte le insigni generazioni carolinge. Non immaginava che suo marito fosse un uomo vecchio e obeso, ma neanche il contrario. Inès fu una buona sposa che offrì a suo marito tutta la sua virtus in conjugio; sapeva esibire le nobili origini e, soprattutto la "casta", cioè, la cristiana castità coniugale. Se la sposa, secondo quanto prescriveva il precetto apostolico, doveva spogliarsi di passione e "usare il marito come se non lo avesse", a Inès sicuramente non risultó difficile farlo; in effetti, entrava a stento nel letto nuziale accanto al suo enorme sposo. Non doveva frenare accessi di passione nè basse umidità . Non sentiva la minima attrazione per suo marito e, per la verità , verso nessun uomo. Si sarebbe detto che Inès non avesse mai sentito la minima inclinazione verso la sensualità . Niente le provocava piacere e, neanche, ripugnanza. Non sapeva nulla di gemiti e lamenti nè di pulsioni notturne. Per tutto il tempo del suo matrimonio, il marchese aveva avuto tre erezioni senili, tre volte si congiunsero e tre volte partorì la povera Inès senza sapere mai che cosa fosse la frenesia veneris. Come se una maledizione si fosse abbattuta sulla famiglia, proprio come sua madre, non ebbe maschi; furono tutte femmine; foglie secche per il malconcio albero genealogico carolingio. Una quarta erezione sarebbe stata un miracolo; ragion per cui stanco, indignato e scoraggiato, il marchese decise di morire. E così fece. Inès era una donna molto giovane. Si dedicava completamente ad allevare le sue tre colpe, non senza un qualche dispiacere per la memoria del suo defunto marito, non avendo potuto esaudire il di lui desiderio di formare un anello della sua nobile catena genealogica. Tutto il suo spirito si riversó sulla compassione, la misericordia, la carità e soprattutto su Dio. Nell'intimità della sua alcova, scriveva un'infinità di poesie in Sua lode. Pregava. Ed era una delle donne più ricche di Firenze. Portava avanti la sua vedovanza senza altro dispiacere che quello di non aver potuto rispettare la santità coniugale, la cui unità di misura è la gloria rappresentata da un figlio maschio. Per il resto, non serviva altro amore che quello di Dio. Non si vedeva privata della consolazione di un uomo; non rimpiangeva dolci delizie e non era nemmeno invasa da oscuri e peccaminosi pensieri perchè, in verità , non aveva mai conosciuto le prime ragion per cui non poteva immaginare i secondi. Tutti i beni che Inès aveva ereditato non erano sufficienti a lenire la pena di essere stata incapace di dare un maschio al suo defunto sposo. E dunque, per alleviare i dispiaceri e, soprattutto, per saldare la sua colpa in memoria del marito, decise di vendere gli oliveti, le viti e i castelli, e con questo denaro costruire un convento. Così, grazie a una esistenza di castità , avrebbe obbedito al dettame coniugale, servendo i figli che il suo ventre non aveva saputo generare: la comunità monastica e i poveri. E così fece. Sembrava che Inès procedesse senza ostacoli verso la santità , fino a che - è giusto dirlo ora - un uomo si interpose fra la sua vita diafana e la gloria eterna: Matteo Renaldo Colombo. Avrebbe potuto finire i suoi giorni come una vera santa. Fu d'estate che la sua salute si guastó a causa di una malattia sconosciuta. Si ritiró con le tre figlie in un'umile casa vicino al monastero da lei eretto e si decise ad aspettare la morte con cristiana rassegnazione. Lo spirito di Inès era diventato via via sempre più oscuro e pessimista; si rinchiuse in un mondo oscuro e tormentato. Ogni avvenimento più o meno insolito o, perfino, banale e quotidiano, diventava per lei un segno dei più neri vaticini; se le campane dell'abbazia suonavano per un qualche motivo, non poteva liberarsi dell'idea che rintoccavano per la morte di una delle sue figlie. Temeva per la salute dell'abate - che, al contrario, era di ferro - e, insomma, per quella di tutti coloro che le stavano vicino. Un qualunque banale raffreddore rivelava, senza ombra di dubbio, una fatale polmonite con conseguenze immediate e fatali. Con il tempo, tutti questi timori si ripiegarono sul suo spirito e sospettava di essere vittima delle più gravi malattie; una semplice irritazione della pelle era il sintomo che anticipava un'evoluzione in lebbra. Si sentiva incalzata dalla morte. Soffriva di interminabili insonnie durante il cui tenebroso corso il suo cuore pareva voler saltare fuori dal petto, soffriva di penosi soffocamenti che le davano la certezza di un'asfissia mortale ed era colta da improvvise crisi di sudore freddo. Nella solitudine del suo letto, immaginava come sarebbe stato il suo corpo dopo la morte e si tormentava all'idea della decomposizione della sua giovane umanità . Ben presto tutti questi angoscianti malesseri si andarono estendendo oltre la frontiera della notte, fino ad occupare completamente la sua vita. Poco a poco, a causa delle vertigini che sembravano far crollare il pavimento sotto i suoi piedi, Inès decise di rifugiarsi definitivamente nel suo letto in attesa di quel che Dio disponesse. Ma non trovava tranquillità nè consolazione nemmeno in Dio, cosa che contribuiva, ancora di più, ai suoi tormenti, perchè proprio per questo metteva in crisi la sua devota coscienza e non poteva neppure più aspettare la morte con cristiana rassegnazione. Inès aveva proprio l'aspetto di chi entra in agonia. Vedendo che la salute di Inès peggiorava irrimediabilmente, l'abate si ricordó che a Padova un chirurgo aveva salvato miracolosamente la vita di un agonizzante, un fatto che, all'epoca, era stato molto commentato. Ragion per cui, senza esitare, intercedette presso il suo illustre cugino vicino ai Medici il quale, senza badare a spese, le fece avere mille fiorini per gli onorari dell'eminenza e altri cinquecento per il viaggio e altre eventualità che potessero occorrere. La scoperta L'impressione che Matteo Colombo si fece della malata fu, nell'immediato, che si trattava di una donna infinitamente bella e, in secondo luogo, che la sua non era una malattia frequente. Inès era distesa sul letto, esanime e incosciente. Esaminó gli occhi e la gola. Le palpó la testa e ispezionó le orecchie. L'abate seguiva i movimenti del medico con diffidente curiosità . Le tastó le caviglie e i polsi e pregó l'abate di lasciarlo solo con l'ammalata insieme al suo "discepolo" Bertino. Seppure con qualche preoccupazione, l'abate abbandonó la stanza. Matteo Colombo pregó Bertino di aiutarlo a svestire la paziente. Forse nessuno avrebbe potuto sospettare che sotto quegli austeri indumenti esistesse una donna di una bellezza straordinaria, come testimoniavano le mani del discepolo, che tremavano come foglie a ogni indumento tolto. "Non hai mai visto una donna nuda?" chiese Matteo Colombo a Bertino con qualche malizia, facendogli notare così che poteva trasformarsi nel delatore della spia del decano. "Sì, l'ho vista... ma non da viva... " esitó Bertino. "Bene, ti ricordo che ció che stai vedendo non è una donna, ma una malata", disse Matteo Colombo sottolineando nel pronunciare la differenza fra le due categorie. In verità , neanche Matteo Colombo aveva potuto sottrarsi alla bellezza della sua paziente, ma aveva il contegno di un esperto, riusciva a non manifestare alcun turbamento. E poi sapeva che un medico doveva far caso alle impressioni soggettive: intuiva che la sua inquietudine e il suo turbamento non erano estranei alla malattia dell'inferma. Esaminó il tono muscolare del ventre e il ritmo della respirazione. Poichè Bertino tardava nell'eseguire il suo compito, ordinó al discepolo di sbrigarsi una buona volta a togliere gli abiti all'inferma. Nel momento stesso in cui l'anatomista si accingeva a prendere il polso, Bertino proruppe in un grido di spavento. "àˆ un uomo! àˆ un uomo!" strillava mentre si faceva il segno della croce e invocava tutti i santi del cielo. "Il potere di Dio sia con me!" implorava con una smorfia di terrore. Matteo Colombo pensó che Bertino fosse diventato completamente pazzo. Il maestro si raddrizzó e cercó di calmare il suo discepolo, quando, con suo stupore, potè vedere, fra le gambe dell'inferma, una perfetta, eretta e minuscola verga. L'anatomista ingiunse al suo discepolo di smetterla di gridare. Certamente quella scoperta, qualunque cosa fosse, metteva in pericolo la vita - già abbastanza fragile - dell'inferma. Matteo Colombo si ricordó immediatamente di un caso che, cinquanta anni prima, aveva portato sul rogo un uomo che presentava l'aspetto di una donna e che, sfruttando le sue forme femminili, esercitava la prostituzione. Eppure, Inès de Torremolinos presentava un'anatomia completamente femminile e, certamente, le sue tre figlie erano la testimonianza della sua altrettanto femminile fisiologia. Tuttavia, sotto il naso attonito del maestro e del suo discepolo, si ergeva quel piccolo organo davanti ai loro occhi sbalorditi sgranati come due paia di fiorini d'oro. L'ipotesi che meglio si adattava alla situazione era quella dell'ermafroditismo. Le antiche cronache dei medici arabi ed egiziani riferivano di numerosi casi di esseri che presentavano i due sessi nello stesso corpo. Anche l'anatomista aveva potuto constatare un caso di ermafroditismo in un cane. Tuttavia, neppure questa congiuntura collimava con i fatti: la caratteristica comune segnalata da tutte le cronache mediche non lasciava dubbi circa il fatto che una simile anomalia significava l'atrofia completa di entrambi gli organi sessuali, quello maschile e quello femminile, rendendo così impossibile la riproduzione. Oltre alle tre creature che Inès de Torremolinos aveva fatto venire al mondo, era evidente che quel piccolo organo non appariva per nulla atrofizzato; al contrario, era infiammato, palpitante e umido. Spinto dalla pura intuizione, l'anatomista prese fra il pollice e l'indice quella innominata parte e con l'indice dell'altra mano cominció a sfregare dolcemente il minuscolo glande, rosso e infiammato. La prima reazione che Matteo Colombo potè osservare fu che tutta la muscolatura del corpo dell'inferma - che fino a quel momento era stata completamente inerte - acquistó un'improvvisa e involontaria tensione mentre quell'organo cresceva un po' in grandezza e si dimenava in brevi contorsioni. "Si muove!" gridó Bertino. "Silenzio! O vuoi che se ne accorga l'abate?" Matteo Colombo continuava a sfregare fra le dita quella protuberanza, come chi sfrega uno sterpo contro una pietra per ottenere il fuoco. All'improvviso, come se finalmente fosse riuscito ad accendere la scintilla del fuoco, tutto il corpo di Inès si dimenó in una grande convulsione che le fece sollevare le natiche e restare appoggiata solo con le caviglie e la nuca, a somiglianza di un arco. Poco a poco la sua vita cominció a muoversi, seguendo la regolarità , il ritmo delle dita dell'anatomista. La respirazione di Inès si fece agitata; il cuore, si sarebbe detto, le galoppava nel petto e tutto il suo corpo brilló improvvisamente per una sudorazione generale, riproducendo, in virtù di quello sfregamento che le prodigava l'anatomista, ciascuno dei penosi sintomi che la spaventavano durante la notte. Eppure, nonostante Inès restasse incosciente, non sembrava che quella seduta le riuscisse, a onor del vero, penosa. La respirazione di Inès andó acquistando un suono soffocato che si trasformó in un ansimare sonoro. Il suo atteggiamento esanime si trasformó in una smorfia lasciva: la bocca, socchiusa, lasciava intravedere la lingua che si agitava fra le labbra. Bertino, il discepolo, si fece il segno della croce. Non riusciva a capire se quello fosse un esorcismo o se, al contrario, il suo maestro stesse mettendo il diavolo nel corpo di Inès. Quasi svenne nel vedere che, all'improvviso, la malata aprì gli occhi, si guardó intorno e, completamente in sè, si abbandonó alla diabolica cerimonia dell'anatomista. I capezzoli di Inès si erano infiammati ed eretti e ora era proprio lei a toccarseli con le sue stesse dita senza smettere di guardare quello sconosciuto con lascivia, mentre biascicava delle parole incomprensibili in spagnolo. Sembrava proprio che Inès fosse passata dall'agonia alla frenesia veneris. Totalmente cosciente - se così si puó dire - Inès afferró la sbarra della testata del suo rozzo letto. Fra lamenti, convulsioni e "come osate" minacciosamente sospirati, Inès lasciava fare. "Come osate?" mormorava mentre passava la lingua sui capezzoli. "Sono una donna casta", diceva mentre si inumidiva le dita sulle labbra. "Come osate?" sospirava e allora spalancava le cosce il più possibile. "Sono madre di tre figlie", diceva senza smettere di accarezzarsi i capezzoli e "come osate", implorava e poi lasciava fare. Quello dell'anatomista non era un compito facile; da un lato doveva sottrarsi alla contagiosa eccitazione della malata e, dall'altro, evitare che quella stessa eccitazione scemasse. Inoltre Bertino - che continuava a segnarsi - non la smetteva di fare domande, esclamazioni e addirittura si permise di minacciare il suo maestro: "State commettendo un sacrilegio, profanazione!". "Vuoi chiudere quella bocca e tenerle le braccia ferme?". Sconvolto come era, Bertino obbedì. "Non le mie, idiota, quelle dell'ammalata!". "Come osate?" sussurrava Inès. "Sono vedova", diceva e poi muoveva le cosce investendo le mani dell'anatomista. "Come osate?" piagnucolava. "Due uomini contro una povera donna indifesa", diceva e allora tendeva la mano verso la verga del discepolo, le cui suppliche a Dio non impedivano che cominciasse a avercelo un po' duro, cosa che, naturalmente, assicurava all'anatomista il silenzio di Bertino. "Come osate!" mormorava Inès. "Se non vi ho mai visto prima d'ora!". Matteo Colombo rimase dieci giorni a Firenze con la sua malata. Dieci giorni durante i quali Inès si ristabilì completamente, almeno dalle sue precedenti sofferenze. L'anatomista, d'accordo con l'abate, prese alloggio in una cella del monastero la cui vicinanza alla casa dell'inferma gli permetteva di non interrompere la sua segreta cura. Peró Inès consideró che era un'imperdonabile mancanza di ospitalità e lo fece alloggiare in casa sua. Gli preparó un'accogliente stanza accanto alla propria. Inès non era la donna lasciva che aveva conosciuto Matteo Colombo. Al contrario aveva l'aspetto di una santa; era estremamente pudica nel vestire, riservata nel suo fare e nel suo dire. Eppure, al momento di sottoporsi alle cure dell'anatomista, sembrava che dal suo corpo si facesse largo uno spirito diabolico illimitato che travolgeva la barriera del pudore e che si ritirava solo dopo che era arrivata all'estasi, dopo di che Inès ritornava alla sua modestia. L'inferma fingeva di ribellarsi al piacere attraverso dei leggerissimi "Come osate?" che peró assomigliavano più a un gemito di godimento che a una lamentela. Finite le sedute non accennava a nessun particolare, come se non serbasse memoria di quanto era accaduto nell'alcova o come se non avesse più importanza che il prendere delle erbe medicinali. Con l'avanzare della cura, quella misteriosa protuberanza che presentava la forma di un vero e proprio pene andava rimpicciolendo proprio come le sofferenze dell'inferma. Per il resto, Inès sembrava trovarsi a suo agio in compagnia di Matteo Colombo. Al mattino passeggiavano nel viale di bosso del bosco confinante con il monastero e intorno al mezzogiorno sedevano all'ombra di un rovere a mangiare fragole e more di bosco. A metà pomeriggio, Inès e l'anatomista rientravano a casa, si chiudevano in camera da letto e allora iniziava la cura. Inès si sdraiava docilmente sul letto, faceva scivolare le gonne lungo le cosce, allargava un poco le ginocchia mentre inarcava le spalle sollevando le natiche, dolci e sporgenti, e si offriva alle mani dell'anatomista chiudendo gli occhi e stringendo le labbra ancora umide e colorate dal succo delle more. E ogni mattina Matteo Colombo e la sua paziente uscivano a passeggiare nel bosco confinante con l'abbazia e dopo mezzogiorno entravano a casa e "come osate, anche se non porto l'abito sono una donna consacrata". E ogni sera, dopo una cena frugale e tranquilla, "come osate, ho giurato sulla memoria del mio defunto di osservare castità e celibato". Matteo Colombo, da parte sua, stava bene a Firenze. Il motivo del soggiorno di Matteo Colombo non era solamente quello di vegliare sulla salute della sua paziente; cosa era quel piccolo organo innominato che si comportava proprio come un sesso maschile? Che cos'era quella minuscola mostruosità che si affacciava orribilmente dal pube femminile di Inès? Inès era una donna? Si trovava di fronte a una mostruosità della natura o, come sospettava, alla più incredibile scoperta della misteriosa anatomia femminile?
MEGLIO LICANTROPI CHE FILANTROPI
Baalkaan hai la machina targata Sassari?
VE LA MERITATE GEGGIA
Baalkaan hai la machina targata Sassari?
VE LA MERITATE GEGGIA
- gregor samsa
- Impulsi avanzati
- Messaggi: 811
- Iscritto il: 30/12/2007, 0:22
un raccontino estremamente piacevole, da rileggere ogni tanto.
Vonnegut, Kurt - Long Walk To Forever
They had grown up next door to each other, on the fringe of a
city, near fields and woods and orchards, within sight of a
lovely bell tower that belonged to a school for the blind.
Now they were twenty, had not seen each other for nearly
a year. There had always ben playful, comfortable warmth
between them, but never any talk of love.
His name was Newt. Her name was Catharine. In the early afternoon, Newt
knocked on Catharine's front door.
Catharine came to the door. She was carrying a fat, glossy magazine she had been reading.
The magazine was devoted entirely to brides. "Newt!" she said. She was surprised to see him.
"Could you come for a walk?" he said. He was a shy person, even with
Catharine. He covered his shyness by speaking absently as though what really concerned him
were far away--as though he were a secret agent pausing briefly on a mission between
beautiful, distant, and sinister points. This manner of speaking had always been Newt's style,
even in matters that concerned him desperately.
"A walk?" said Catharine.
"One foot in front of the other," said Newt, "through leaves, over bridges---"
"I had no idea you were in town," she said.
"Just this minute got in," he said.
"Still in the Army, I see," she said.
"Seven months more to go," he said. He was a private first class in the
Artillery. His uniform was rumpled. His shoes were dusty. He needed a shave. He held out his hand
for the magazine.
"Let's see the pretty book," he said.
She gave it to him. "I'm getting married, Newt," she said.
"I know," he said. "Let's go for a walk."
"I'm awfully busy, Newt," she said. "The wedding is only a week away."
"If we go for a walk," he said, "it will make you rosy. It will make
you a rosy bride." He turned the pages of the magazine. "A rosy bride like her--like her--like
her," he said, showing her rosy brides.
Catharine turned rosy, thinking about rosy brides.
"That will be my present to Henry Stewart Chasens," said Newt. "By
taking you for a walk, I'll be giving him a rosy bride."
"You know his name?" she said.
"Mother wrote," he said. "From Pittsburgh?"
"Yes," she said. "You'd like him."
"Maybe," he said.
"Can--can you come to the wedding, Newt?" she said.
"That I doubt," he said.
"Your furlough isn't for long enough?" she said.
"Furlough?" said Newt. He was studying a two page ad for flat silver.
"I'm not on furlough," he said.
"Oh?" she said.
"I'm what they call A.W.O.L.," said Newt.
"Oh, Newt! You're not!" she said.
"Sure I am," he said, still looking at the magazine.
"Why, Newt?" she said.
"I had to find out what your silver pattern is," he said. He read names
of silver patterns from the magazine. Albemarle? Heather?" he said. "Legend? Rambler Rose?" He
looked up, smiled. "I plan to give you and your husband a spoon," he said.
"Newt, Newt--tell me really," she said.
"I want to go for a walk," he said.
She wrung her hands in sisterly anguish. "Oh, Newt--you're fooling me about being A.W.O.L.," she said.
Newt imitated a police siren softly, and raised his eyebrows.
"Where--where from?"
"Fort Bragg," he said.
"North Carolina?" she said.
"That's right," he said. "Near Fayetteville--where Scarlet O'Hara went to school."
"How did you get here, Newt?" she said.
He raised his thumb, jerked it in a hitchhike gesture. "Two days," he said.
"Does your mother know?" she said.
"I didn't come to see my mother," he told her.
"Who did you come to see?" she said.
"You," he said.
"Why me?" she said.
"Because I love you," he said. "Now can we take a walk?" he said. "One
foot in front of the other--through leaves, over bridges--"
They were taking the walk now, were in a woods with a brown-leaf floor.
Catharine was angry and rattled, close to tears. "Newt," she said,
"this is absolutely crazy."
"How so?" said Newt.
"What a crazy time to tell me you love me," she said. "You never talked that way before."
She stopped walking.
"Let's keep walking," he said.
"No," she said. "So far, no farther. I shouldn't have come out with you at all," she said.
"You did," he said.
"To get you out of the house," she said. "If somebody walked in and
heard you talking to me that way, a week before the wedding--"
"What would they think?" he said.
"They'd think you were crazy," she said.
"Why?" he said
Catharine took a deep breath, made a speech. "Let me say that I'm
deeply honored by this crazy thing you've done," she said. "I can't believe you're really A.W.O.L.,
but maybe you are. I can't believe you really love me, but maybe you do. But--"
"I do," said Newt.
"Well, I'm deeply honored," said Catharine, "and I'm very fond of you as a friend, Newt,
extremely fond--but it's just too late." She took a step away from him.
"You've never even kissed me," she said, and she protected herself with her hands. "I don't mean you
should do it now. I just mean that this is all so unexpected. I haven't got the remotest idea of how
to respond."
"Just walk some more," he said. "Have a nice time."
They started walking again.
"How did you expect me to react?" she said.
"How would I know what to expect?" he said. "I've never done anything like this before."
Did you think I would throw myself into your arms?" she said.
"Maybe," he said.
"I'm sorry to disappoint you," she said.
"I'm not disappointed," he said. "I wasn't counting on it. This is very nice, just walking."
Catharine stopped again. "You know what happens next?" she said.
"Nope," he said.
"We shake hands," she said. "We shake hands and part friends," she said. "That's what happens next."
Newt nodded. "All right," he said. "Remember me from time to time.
Remember how much I loved you."
Involuntarily, Catharine burst into tears. She turned her back to Newt,
looked into the infinate colonnade of the woods.
"What does that mean?" said Newt.
"Rage!" said Catharine. She clenched her hands. "You have no right--"
"I had to find out," he said.
"If I'd loved you," she said, "I would have let you know before now."
"You would?" he said.
"Yes," she said. She faced him, looked up at him, her face quite red.
"You would have known," she said.
"How?" he said.
"You would have seen it," she said. "Women aren't very clever at hiding it."
Newt looked closely at Catharine's face now. To her consternation, she
realized that what she had said was true, that a woman couldn't hide love.
Newt was seeing love now.
And he did what he had to do. He kissed her.
"You're hell to get along with!" she said when Newt let her go.
"I am?" said Newt.
"You shouldn't have done that," she said.
"You didn't like it?" he said.
"What did you expect," she said--"wild, adandoned passion?"
"I keep telling you," he said," I never know what's going to happen next."
"We say good-by," she said.
He frowned slightly. "All right," he said.
She made another speech. "I'm not sorry we kissed," she said. "That was sweet. We should
have kissed, we've been so close. I'll always remember you , Newt, and good luck."
"You too," he said.
"Thirty days," he said.
"What?" she said.
"Thirty days in the stockade," he said--"that's what one kiss will cost me."
"I--I'm sorry," she said, "but I didn't ask you to go A.W.O.L."
"I know," he said.
"You certainly don't deserve any hero's reward for doing something as foolish as that," she said.
"Must be nice to be a hero," said Newt. "Is Henry Stewart Chasens a hero?"
"He might be, if he got the chance," said Catharine. She noted uneasily
that they had begun to walk again. The farewell had been forgotten.
"You really love him?" he said.
"Certainly I love him!" she said hotly. "I wouldn't marry him if I didn't love him!"
"What's good about him?" said Newt.
"Honestly!" she cried, stopping again. "Do you have any idea how offensive you're being?
Many, many, many things are good about Henry! Yes," she said, "and many,
many, many things are probably bad, too. But that isn't any of your business. I love Henry,
and I don't have to argue his merits with you!"
"Sorry," said Newt.
"Honestly!" said Catharine.
Newt kissed her again. He kissed her again because she wanted him to.
They were now in a large orchard.
"How did we get so far from home, Newt?" said Catharine.
"One foot in front of the other--through leaves, over bridges," said Newt.
"They add up--the steps," she said.
Bells rang in the tower of the school for the blind nearby.
"School for the blind," said Newt.
"School for the blind," said Catharine. She shook her head in drowsy wonder. "I've got to go back now," she said.
"Say good-by," said Newt.
"Every time I do," said Catharine, "I seem to get kissed."
Newt sat down on the close-cropped grass under an apple tree. "Sit down," he said.
"No," she said.
"I won't touch you," he said.
"I don't believe you," she said.
She sat down under another tree, twenty feet away from him. She closed her eyes.
"Dream of Henry Stewart Chasens," he said.
"What?" she said.
"Dream of your wonderful husband-to-be," he said.
"All right, I will," she said. She closed her eyes tighter, caught
glimpses of her husband-to-be.
Newt yawned.
The bees were humming in the trees, and Catharine almost fell asleep.
When she opened her eyes she saw that Newt really was asleep.
He began to snore softly.
Catharine let him sleep for an hour, and while he slept she adored him with all her heart.
The shadows of the apple trees grew to the east. The bells in the tower
of the school for the blind rang again.
"*chick-a-dee-dee-dee*," went a chickadee.
Somewhere far away an automobile started nagged and failed, nagged and failed, fell still.
Catharine came out from under her tree, knelt by Newt.
"Newt?" she said.
"H'm?" he said. He opened his eyes.
"Late," she said.
"Hello, Catharine," he said.
"Hello, Newt," she said.
"I love you," he said.
"I know," she said.
"Too late," he said.
"Too late," she said.
He stood, stretched groaningly. "A very nice walk," he said.
"I thought so," she said.
"Part company here?" he said.
"Where will you go?" she said.
"Hitch into town, turn myself in," he said.
"Good luck," she said.
"You too," he said. "Marry me, Catharine?"
"No," she said.
He smiled, stared at her hard for a moment, then walked away quickly.
Catharine watched him grow smaller in the long perspective of shadows
and trees, knew that if he stopped and turned now, if he called to her, she would run to
him. She would have no choice.
Newt did stop. He did turn. He did call. "Catharine," he called.
She ran to him, put her arms aroud him, could not speak.
Vonnegut, Kurt - Long Walk To Forever
They had grown up next door to each other, on the fringe of a
city, near fields and woods and orchards, within sight of a
lovely bell tower that belonged to a school for the blind.
Now they were twenty, had not seen each other for nearly
a year. There had always ben playful, comfortable warmth
between them, but never any talk of love.
His name was Newt. Her name was Catharine. In the early afternoon, Newt
knocked on Catharine's front door.
Catharine came to the door. She was carrying a fat, glossy magazine she had been reading.
The magazine was devoted entirely to brides. "Newt!" she said. She was surprised to see him.
"Could you come for a walk?" he said. He was a shy person, even with
Catharine. He covered his shyness by speaking absently as though what really concerned him
were far away--as though he were a secret agent pausing briefly on a mission between
beautiful, distant, and sinister points. This manner of speaking had always been Newt's style,
even in matters that concerned him desperately.
"A walk?" said Catharine.
"One foot in front of the other," said Newt, "through leaves, over bridges---"
"I had no idea you were in town," she said.
"Just this minute got in," he said.
"Still in the Army, I see," she said.
"Seven months more to go," he said. He was a private first class in the
Artillery. His uniform was rumpled. His shoes were dusty. He needed a shave. He held out his hand
for the magazine.
"Let's see the pretty book," he said.
She gave it to him. "I'm getting married, Newt," she said.
"I know," he said. "Let's go for a walk."
"I'm awfully busy, Newt," she said. "The wedding is only a week away."
"If we go for a walk," he said, "it will make you rosy. It will make
you a rosy bride." He turned the pages of the magazine. "A rosy bride like her--like her--like
her," he said, showing her rosy brides.
Catharine turned rosy, thinking about rosy brides.
"That will be my present to Henry Stewart Chasens," said Newt. "By
taking you for a walk, I'll be giving him a rosy bride."
"You know his name?" she said.
"Mother wrote," he said. "From Pittsburgh?"
"Yes," she said. "You'd like him."
"Maybe," he said.
"Can--can you come to the wedding, Newt?" she said.
"That I doubt," he said.
"Your furlough isn't for long enough?" she said.
"Furlough?" said Newt. He was studying a two page ad for flat silver.
"I'm not on furlough," he said.
"Oh?" she said.
"I'm what they call A.W.O.L.," said Newt.
"Oh, Newt! You're not!" she said.
"Sure I am," he said, still looking at the magazine.
"Why, Newt?" she said.
"I had to find out what your silver pattern is," he said. He read names
of silver patterns from the magazine. Albemarle? Heather?" he said. "Legend? Rambler Rose?" He
looked up, smiled. "I plan to give you and your husband a spoon," he said.
"Newt, Newt--tell me really," she said.
"I want to go for a walk," he said.
She wrung her hands in sisterly anguish. "Oh, Newt--you're fooling me about being A.W.O.L.," she said.
Newt imitated a police siren softly, and raised his eyebrows.
"Where--where from?"
"Fort Bragg," he said.
"North Carolina?" she said.
"That's right," he said. "Near Fayetteville--where Scarlet O'Hara went to school."
"How did you get here, Newt?" she said.
He raised his thumb, jerked it in a hitchhike gesture. "Two days," he said.
"Does your mother know?" she said.
"I didn't come to see my mother," he told her.
"Who did you come to see?" she said.
"You," he said.
"Why me?" she said.
"Because I love you," he said. "Now can we take a walk?" he said. "One
foot in front of the other--through leaves, over bridges--"
They were taking the walk now, were in a woods with a brown-leaf floor.
Catharine was angry and rattled, close to tears. "Newt," she said,
"this is absolutely crazy."
"How so?" said Newt.
"What a crazy time to tell me you love me," she said. "You never talked that way before."
She stopped walking.
"Let's keep walking," he said.
"No," she said. "So far, no farther. I shouldn't have come out with you at all," she said.
"You did," he said.
"To get you out of the house," she said. "If somebody walked in and
heard you talking to me that way, a week before the wedding--"
"What would they think?" he said.
"They'd think you were crazy," she said.
"Why?" he said
Catharine took a deep breath, made a speech. "Let me say that I'm
deeply honored by this crazy thing you've done," she said. "I can't believe you're really A.W.O.L.,
but maybe you are. I can't believe you really love me, but maybe you do. But--"
"I do," said Newt.
"Well, I'm deeply honored," said Catharine, "and I'm very fond of you as a friend, Newt,
extremely fond--but it's just too late." She took a step away from him.
"You've never even kissed me," she said, and she protected herself with her hands. "I don't mean you
should do it now. I just mean that this is all so unexpected. I haven't got the remotest idea of how
to respond."
"Just walk some more," he said. "Have a nice time."
They started walking again.
"How did you expect me to react?" she said.
"How would I know what to expect?" he said. "I've never done anything like this before."
Did you think I would throw myself into your arms?" she said.
"Maybe," he said.
"I'm sorry to disappoint you," she said.
"I'm not disappointed," he said. "I wasn't counting on it. This is very nice, just walking."
Catharine stopped again. "You know what happens next?" she said.
"Nope," he said.
"We shake hands," she said. "We shake hands and part friends," she said. "That's what happens next."
Newt nodded. "All right," he said. "Remember me from time to time.
Remember how much I loved you."
Involuntarily, Catharine burst into tears. She turned her back to Newt,
looked into the infinate colonnade of the woods.
"What does that mean?" said Newt.
"Rage!" said Catharine. She clenched her hands. "You have no right--"
"I had to find out," he said.
"If I'd loved you," she said, "I would have let you know before now."
"You would?" he said.
"Yes," she said. She faced him, looked up at him, her face quite red.
"You would have known," she said.
"How?" he said.
"You would have seen it," she said. "Women aren't very clever at hiding it."
Newt looked closely at Catharine's face now. To her consternation, she
realized that what she had said was true, that a woman couldn't hide love.
Newt was seeing love now.
And he did what he had to do. He kissed her.
"You're hell to get along with!" she said when Newt let her go.
"I am?" said Newt.
"You shouldn't have done that," she said.
"You didn't like it?" he said.
"What did you expect," she said--"wild, adandoned passion?"
"I keep telling you," he said," I never know what's going to happen next."
"We say good-by," she said.
He frowned slightly. "All right," he said.
She made another speech. "I'm not sorry we kissed," she said. "That was sweet. We should
have kissed, we've been so close. I'll always remember you , Newt, and good luck."
"You too," he said.
"Thirty days," he said.
"What?" she said.
"Thirty days in the stockade," he said--"that's what one kiss will cost me."
"I--I'm sorry," she said, "but I didn't ask you to go A.W.O.L."
"I know," he said.
"You certainly don't deserve any hero's reward for doing something as foolish as that," she said.
"Must be nice to be a hero," said Newt. "Is Henry Stewart Chasens a hero?"
"He might be, if he got the chance," said Catharine. She noted uneasily
that they had begun to walk again. The farewell had been forgotten.
"You really love him?" he said.
"Certainly I love him!" she said hotly. "I wouldn't marry him if I didn't love him!"
"What's good about him?" said Newt.
"Honestly!" she cried, stopping again. "Do you have any idea how offensive you're being?
Many, many, many things are good about Henry! Yes," she said, "and many,
many, many things are probably bad, too. But that isn't any of your business. I love Henry,
and I don't have to argue his merits with you!"
"Sorry," said Newt.
"Honestly!" said Catharine.
Newt kissed her again. He kissed her again because she wanted him to.
They were now in a large orchard.
"How did we get so far from home, Newt?" said Catharine.
"One foot in front of the other--through leaves, over bridges," said Newt.
"They add up--the steps," she said.
Bells rang in the tower of the school for the blind nearby.
"School for the blind," said Newt.
"School for the blind," said Catharine. She shook her head in drowsy wonder. "I've got to go back now," she said.
"Say good-by," said Newt.
"Every time I do," said Catharine, "I seem to get kissed."
Newt sat down on the close-cropped grass under an apple tree. "Sit down," he said.
"No," she said.
"I won't touch you," he said.
"I don't believe you," she said.
She sat down under another tree, twenty feet away from him. She closed her eyes.
"Dream of Henry Stewart Chasens," he said.
"What?" she said.
"Dream of your wonderful husband-to-be," he said.
"All right, I will," she said. She closed her eyes tighter, caught
glimpses of her husband-to-be.
Newt yawned.
The bees were humming in the trees, and Catharine almost fell asleep.
When she opened her eyes she saw that Newt really was asleep.
He began to snore softly.
Catharine let him sleep for an hour, and while he slept she adored him with all her heart.
The shadows of the apple trees grew to the east. The bells in the tower
of the school for the blind rang again.
"*chick-a-dee-dee-dee*," went a chickadee.
Somewhere far away an automobile started nagged and failed, nagged and failed, fell still.
Catharine came out from under her tree, knelt by Newt.
"Newt?" she said.
"H'm?" he said. He opened his eyes.
"Late," she said.
"Hello, Catharine," he said.
"Hello, Newt," she said.
"I love you," he said.
"I know," she said.
"Too late," he said.
"Too late," she said.
He stood, stretched groaningly. "A very nice walk," he said.
"I thought so," she said.
"Part company here?" he said.
"Where will you go?" she said.
"Hitch into town, turn myself in," he said.
"Good luck," she said.
"You too," he said. "Marry me, Catharine?"
"No," she said.
He smiled, stared at her hard for a moment, then walked away quickly.
Catharine watched him grow smaller in the long perspective of shadows
and trees, knew that if he stopped and turned now, if he called to her, she would run to
him. She would have no choice.
Newt did stop. He did turn. He did call. "Catharine," he called.
She ran to him, put her arms aroud him, could not speak.
...se sbaglio, mi corigerete. (gpII)
lo so è una domanda del cazzo
mi consigiate uno di quei libri guida (o dispense) sul management??
tipo "il giovane manager...iniziare a fare il manager..ecc."
perchè io ho 2 o 3 idee..ma non l'ho mai fatto....
sicuramente dei pareri da esperti (lo so..scrivere un libro non è necessariamente sinonimo di essere esperti..) mi farebbero piacere..
mi consigiate uno di quei libri guida (o dispense) sul management??
tipo "il giovane manager...iniziare a fare il manager..ecc."
perchè io ho 2 o 3 idee..ma non l'ho mai fatto....


sicuramente dei pareri da esperti (lo so..scrivere un libro non è necessariamente sinonimo di essere esperti..) mi farebbero piacere..

E' la vecchia guardia e i suoi interventi sul darkside sono imprescindibili, affronta il lato oscuro del sesso estremo con l'approccio dostojeschiano dell'uomo che soffre, mitizza e somatizza.UN DEMONE
Now I lay me down to sleep,Pray the lord my soul to keep.And if I die before I wake pray the lord my soul to take.
Now I lay me down to sleep,Pray the lord my soul to keep.And if I die before I wake pray the lord my soul to take.
- JoaoTinto
- Impulsi superiori
- Messaggi: 1778
- Iscritto il: 18/07/2007, 3:00
- Località: Har Məgiddô in attesa dei Ragnarǫk
- Contatta:
[b:3a5ff982c0]Il piatto piange [/b:3a5ff982c0]Mondadori, Milano 1988. L'esordio narrativo di Piero Chiara.
[img:3a5ff982c0]http://www.kultunderground.org/Public/i ... piange.jpg[/img:3a5ff982c0]
Il racconto, è ambientato a Luino, in periodo fascista, la cittadina sonnecchia, l'unica via d'uscita è emigrare per fare delle esperienze di lavoro ma soprattutto di vita e avere qualcosa da raccontare agli amici del caffè quando si torna in paese, nella meschinità da cui non la traggono ne le bravate squadriste dello Spreafico, dirigente del P.N.F. locale, ne la vita da "vitelloni" condotta da un drappello di "signori gaudenti" che raccoglie presso a poco tutte le personalità paesane, il professore, il capostazione, l'albergatore ecc. Personaggi come il Camola al secolo Tonini Mario, o il Tolini (detto Tetà n) suo grande amico, "donnaiolo accanito, e perciò silenzioso" che come il Cà mola "non aveva idea dell'amore e si limitava a correre da un posto all'altro dove c'era da possedere una donna, qualunque fosse", il Rimediotti, vecchio baro benvoluto da tutti i giocatori "per la sua età di ottant'anni circa, per simpatia verso l'imbroglio ben fatto, ma più che altro per rispetto al suo splendido passato di dissolutezza". Questi personaggi sono soliti raccogliersi nella bisca clandestina del Berzi, padrone dell'Hotel Metropolitan, uno disposto perfino a giocare se stesso; dove passano le nottate giocando a poker o a chemin de fer ; commentando i fatti del giorno; vantandosi delle proprie prodezze virili. E tra di essi, in fatto di conquiste, si distingue proprio il Camola che, invaghitosi di Ines, finisce per conquistarla, rubandola al cognato cav. Tritapane. Ma dall'avventura esce con una malattia che il dottore locale diagnostica come ulcera sifilitica. La celebrazione del 21 aprile, le spedizioni moralistiche dello Spreafico, la morte di Mamma Rosa tenutaria della locale casa di tolleranza, la guarigione del Camola, non mutano il quadro. Il signor Berzi, dopo un periodo di serietà astiosa provocata dalle continue perdite, finisce per riaprire la bisca e i soliti uomini si ritrovano attorno al tavolo verde.
[i:3a5ff982c0]«Mamarosa, con la vocina spenta che le era venuta (forse perchè aveva pianto per la prima volta dopo l'infanzia) disse:
"Nù mai fa del mal. U fà sto mestè... Se podevi fà , se potevi fà cosè? Sunt nasùda.. sunt cressùda in di casott... Ma nù mai fà del mal... ho jutà tanta gent. El Signur el me perdònna... l'à di lù, el Prevost... che l'è de Milan... còmpagn de mi."
L'Agnese approvava con la testa, la Bambina stringeva le labbra. Le ragazze piangevano: o, almeno, avrebbero dovuto piangere, a quell'epitaffio che Mamarosa si scolpiva lentamente, con la voce fioca, nell'aria pesante della stanza.
Dalla vicina Chiesa del Carmine, dopo che Mamarosa ebbe detto "còmpagn de mi", quasi intendendo che da quella gran città veniva tutto, il male e il bene, senza colpa, cominciarono a suonare pochi tocchi di quella campanella che pare di ferro tanto è scarsa di eco. Era il Prevosto, che arrivato alla Prepositurale aveva spedito il sacrista al Carmine per dare un saluto a chi sapeva lui. Gliel'aveva chiesto Mamarosa.
"Famm sunà L'ingunìa, al Cà rmen, che ghe tègni..."»
[/i:3a5ff982c0]
Un mondo proprio di un'epoca e che verrà spazzato via dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza. Leggere queste pagine è stato per me di estrema piacevolezza.
[img:3a5ff982c0]http://www.kultunderground.org/Public/i ... piange.jpg[/img:3a5ff982c0]
Il racconto, è ambientato a Luino, in periodo fascista, la cittadina sonnecchia, l'unica via d'uscita è emigrare per fare delle esperienze di lavoro ma soprattutto di vita e avere qualcosa da raccontare agli amici del caffè quando si torna in paese, nella meschinità da cui non la traggono ne le bravate squadriste dello Spreafico, dirigente del P.N.F. locale, ne la vita da "vitelloni" condotta da un drappello di "signori gaudenti" che raccoglie presso a poco tutte le personalità paesane, il professore, il capostazione, l'albergatore ecc. Personaggi come il Camola al secolo Tonini Mario, o il Tolini (detto Tetà n) suo grande amico, "donnaiolo accanito, e perciò silenzioso" che come il Cà mola "non aveva idea dell'amore e si limitava a correre da un posto all'altro dove c'era da possedere una donna, qualunque fosse", il Rimediotti, vecchio baro benvoluto da tutti i giocatori "per la sua età di ottant'anni circa, per simpatia verso l'imbroglio ben fatto, ma più che altro per rispetto al suo splendido passato di dissolutezza". Questi personaggi sono soliti raccogliersi nella bisca clandestina del Berzi, padrone dell'Hotel Metropolitan, uno disposto perfino a giocare se stesso; dove passano le nottate giocando a poker o a chemin de fer ; commentando i fatti del giorno; vantandosi delle proprie prodezze virili. E tra di essi, in fatto di conquiste, si distingue proprio il Camola che, invaghitosi di Ines, finisce per conquistarla, rubandola al cognato cav. Tritapane. Ma dall'avventura esce con una malattia che il dottore locale diagnostica come ulcera sifilitica. La celebrazione del 21 aprile, le spedizioni moralistiche dello Spreafico, la morte di Mamma Rosa tenutaria della locale casa di tolleranza, la guarigione del Camola, non mutano il quadro. Il signor Berzi, dopo un periodo di serietà astiosa provocata dalle continue perdite, finisce per riaprire la bisca e i soliti uomini si ritrovano attorno al tavolo verde.
[i:3a5ff982c0]«Mamarosa, con la vocina spenta che le era venuta (forse perchè aveva pianto per la prima volta dopo l'infanzia) disse:
"Nù mai fa del mal. U fà sto mestè... Se podevi fà , se potevi fà cosè? Sunt nasùda.. sunt cressùda in di casott... Ma nù mai fà del mal... ho jutà tanta gent. El Signur el me perdònna... l'à di lù, el Prevost... che l'è de Milan... còmpagn de mi."
L'Agnese approvava con la testa, la Bambina stringeva le labbra. Le ragazze piangevano: o, almeno, avrebbero dovuto piangere, a quell'epitaffio che Mamarosa si scolpiva lentamente, con la voce fioca, nell'aria pesante della stanza.
Dalla vicina Chiesa del Carmine, dopo che Mamarosa ebbe detto "còmpagn de mi", quasi intendendo che da quella gran città veniva tutto, il male e il bene, senza colpa, cominciarono a suonare pochi tocchi di quella campanella che pare di ferro tanto è scarsa di eco. Era il Prevosto, che arrivato alla Prepositurale aveva spedito il sacrista al Carmine per dare un saluto a chi sapeva lui. Gliel'aveva chiesto Mamarosa.
"Famm sunà L'ingunìa, al Cà rmen, che ghe tègni..."»
[/i:3a5ff982c0]
Un mondo proprio di un'epoca e che verrà spazzato via dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza. Leggere queste pagine è stato per me di estrema piacevolezza.
Ultima modifica di JoaoTinto il 27/04/2008, 15:46, modificato 1 volta in totale.
Iudicio procede da savere, Cum scritta legge receve repulsa Ecceptuando 'l singular vedere. Per una vista iudicare 'l facto Sentenzia da vertute se resulta Erro e rasone se corrumpe 'l pacto. Non iudicare, se tu non vedi, E non serai ingannato se ciò credi.
[L’Acerba - Cecco d’Ascoli]
I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
[Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev]
[L’Acerba - Cecco d’Ascoli]
I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
[Aleksandr Aleksandrovič Zinov’ev]
damjan ha scritto:ragazzi posso consigliarvi un libro davvero bello che vi coinvolgerà dall'inizio alla fine ? correte dal vostro libraio, e chiedetegli "SAMURAI" edito da LONGANESI, se non ce l'ha in casa fatelo ordinare....non vi pentirete (e costa pochissimo)
Il (i) consiglio è sempre benaccetto ma ci vorrebbe un minimo di recensione.
Quì funziona così....

Non votate per me. Io sono fuori dal Cerchio Magico.
o almeno l'autore...Ortheus ha scritto:damjan ha scritto:ragazzi posso consigliarvi un libro davvero bello che vi coinvolgerà dall'inizio alla fine ? correte dal vostro libraio, e chiedetegli "SAMURAI" edito da LONGANESI, se non ce l'ha in casa fatelo ordinare....non vi pentirete (e costa pochissimo)
Il (i) consiglio è sempre benaccetto ma ci vorrebbe un minimo di recensione.
Sono un forumista-immagine.
- bigtitslover
- Veterano dell'impulso
- Messaggi: 4285
- Iscritto il: 18/01/2007, 11:24
- Località: un cargo battente bandiera liberiana
credo che stasera finiró di leggere questo:

Ninna nanna per piccoli criminali
Autore O'Neill Heather
Prezzo € 16,50, 344 p., Editore Mondadori (collana Strade blu)
A tredici anni la piccola Baby oscilla pericolosamente tra gli istinti infantili e le tentazioni dell'età adulta: è ancora abbastanza giovane da portarsi in giro le bambole in una valigia di plastica, ma è anche abbastanza grande da avere una conoscenza fin troppo approfondita e di prima mano delle crudeltà della vita urbana. Orfana di madre, vive col padre, Jules, che invece di occuparsi di lei dedica ogni energia alla ricerca quotidiana di eroina. Ma Baby ha un dono particolare: è abilissima a intrecciare storie a partire dagli eventi più squallidi della sua esistenza e riesce in tal modo a garantirsi minime ma preziosissime briciole di felicità . Sfortunatamente la sua acerba bellezza attira le mire di un affascinante e pericoloso pappone locale che è alla guida di un esercito di ragazzine tanto tristi quanto devote a lui. La situazione si fa insostenibile e persino Jules sembra accorgersene. Alla fine Baby comprenderà che la possibilità di salvezza sta solo nelle sue mani e che dovrà essere lei a tuffarsi con coraggio verso l'ignoto e il futuro.
mia opinione: è una buona opera prima, è ben descritta la discesa all'inferno di una bambina che nonostante tutto rimane tale e attraversa le situazioni con un'innocenza tutto sommato intatta... mi ha colpito tra le altre cose la descrizione di cosa rappresenta il sesso per i bambini e il rapportarsi di baby con il mondo degli adulti, con pochi squarci di normalità che la colpiscono come pugni allo stomaco e l'ordinario squallore che in fondo è più rassicurante.
un particolare: sono sempre immaginifiche le descrizioni fatte dall'autrice, cito a memoria "le luci della città si accendevano pian piano come bocche di pesci che si aaffannano a prendre le briciole di pane gettate sulla riva del lago".
PS: la copertina potrebbe essere l'avatar di qualcuno qui dentro.

Ninna nanna per piccoli criminali
Autore O'Neill Heather
Prezzo € 16,50, 344 p., Editore Mondadori (collana Strade blu)
A tredici anni la piccola Baby oscilla pericolosamente tra gli istinti infantili e le tentazioni dell'età adulta: è ancora abbastanza giovane da portarsi in giro le bambole in una valigia di plastica, ma è anche abbastanza grande da avere una conoscenza fin troppo approfondita e di prima mano delle crudeltà della vita urbana. Orfana di madre, vive col padre, Jules, che invece di occuparsi di lei dedica ogni energia alla ricerca quotidiana di eroina. Ma Baby ha un dono particolare: è abilissima a intrecciare storie a partire dagli eventi più squallidi della sua esistenza e riesce in tal modo a garantirsi minime ma preziosissime briciole di felicità . Sfortunatamente la sua acerba bellezza attira le mire di un affascinante e pericoloso pappone locale che è alla guida di un esercito di ragazzine tanto tristi quanto devote a lui. La situazione si fa insostenibile e persino Jules sembra accorgersene. Alla fine Baby comprenderà che la possibilità di salvezza sta solo nelle sue mani e che dovrà essere lei a tuffarsi con coraggio verso l'ignoto e il futuro.
mia opinione: è una buona opera prima, è ben descritta la discesa all'inferno di una bambina che nonostante tutto rimane tale e attraversa le situazioni con un'innocenza tutto sommato intatta... mi ha colpito tra le altre cose la descrizione di cosa rappresenta il sesso per i bambini e il rapportarsi di baby con il mondo degli adulti, con pochi squarci di normalità che la colpiscono come pugni allo stomaco e l'ordinario squallore che in fondo è più rassicurante.
un particolare: sono sempre immaginifiche le descrizioni fatte dall'autrice, cito a memoria "le luci della città si accendevano pian piano come bocche di pesci che si aaffannano a prendre le briciole di pane gettate sulla riva del lago".
PS: la copertina potrebbe essere l'avatar di qualcuno qui dentro.
"Questa è l'Italia del futuro: un paese di musichette...mentre fuori c'è la Morte!" - Boris 3 -
Gastronomia operaia, cannibalizzazione, coltello, forchetta, magnammoce o' padrone - Daniele Sepe -
Blog rhum e cocaina per battere il sistema - Manuel Agnelli -
Quanti troppi anni ri e riciclando il peggio, tutte queste bestie a raschiare il fondo - Mau Mau -
Abbasso le fiche depilate, viva i cespuglioni anni '80 - scritta sul muro -
Senza rabbia non essere felice - scritta sul muro -
Gastronomia operaia, cannibalizzazione, coltello, forchetta, magnammoce o' padrone - Daniele Sepe -
Blog rhum e cocaina per battere il sistema - Manuel Agnelli -
Quanti troppi anni ri e riciclando il peggio, tutte queste bestie a raschiare il fondo - Mau Mau -
Abbasso le fiche depilate, viva i cespuglioni anni '80 - scritta sul muro -
Senza rabbia non essere felice - scritta sul muro -
- kilgore trout
- Primi impulsi
- Messaggi: 33
- Iscritto il: 17/03/2008, 9:06
visto il mio nickname non posso che trovarmi d'accordo.gregor samsa ha scritto:in generale, tutti i libri di vonnegut vanno letti.XCLARAX ha scritto:mattatoio numero 5 di vonnegut
la mia personale classifica:
- la colazione dei campioni;
- hocus pocus;
- galapagos;
- perle ai porci;
- ex aequo tutti gli altri (ma mi piace moltissimo il racconto "long walk to forever" che ho trovato sul mulo in inglese ma non in italiano).
tra i non famosissimi vi consiglio questo:
MADRE NOTTE
Madre notte è il racconto in prima persona di Howard W. Campbell, un americano trasferitosi con la famiglia in Germania dopo la prima guerra mondiale che vi resta anche dopo la presa del potere di Hitler e diventa la voce della propaganda nazista di Goebbels per gli Stati Uniti. All'inizio e alla fine del libro il protagonista si trova in una prigione israeliana, in attesa di processo per crimini di guerra, lì ripensa alla propria vita e decide di scrivere le sue memorie. Nella cella accanto alla sua è rinchiuso anche Eichmann, l'artefice della soluzione finale degli ebrei. Entrambi sono accusati di propaganda nazista e genocidio. Campbell in una serie di flashback e narrazioni secondarie ripercorre gli anni del nazismo, l'arresto, il trasferimento a New York e la decisione di tornare in Israele per farsi processare. Alla fine potrà dimostrare di essere stato un agente dello spionaggio americano, ma se non lo si puó più accusare di crimini contro l'umanità , nondimeno su di lui pesano i crimini contro se stesso. Infatti si finisce per essere chi si finge di essere e il confine tra giusto e sbagliato, bene e male, rischia di diventare labile. Campbell arriva anzi ad affermare che occorre a tutti un po' di follia per non sentire il dolore di vivere. Il racconto, presentato come un autentico documento storico, risulta un'attualissima riflessione sulla guerra, la violenza e le loro cause.
Dal libro, pubblicato nel 1961, è stato tratto anche un film interpretato da Nick Nolte nel 1996.
Una perla.
it's a long way to the top if you wanna rock'n'roll...
- kilgore trout
- Primi impulsi
- Messaggi: 33
- Iscritto il: 17/03/2008, 9:06
visto il mio nickname non posso che trovarmi d'accordo.gregor samsa ha scritto:in generale, tutti i libri di vonnegut vanno letti.XCLARAX ha scritto:mattatoio numero 5 di vonnegut
la mia personale classifica:
- la colazione dei campioni;
- hocus pocus;
- galapagos;
- perle ai porci;
- ex aequo tutti gli altri (ma mi piace moltissimo il racconto "long walk to forever" che ho trovato sul mulo in inglese ma non in italiano).
tra i non famosissimi vi consiglio questo:
MADRE NOTTE
Madre notte è il racconto in prima persona di Howard W. Campbell, un americano trasferitosi con la famiglia in Germania dopo la prima guerra mondiale che vi resta anche dopo la presa del potere di Hitler e diventa la voce della propaganda nazista di Goebbels per gli Stati Uniti. All'inizio e alla fine del libro il protagonista si trova in una prigione israeliana, in attesa di processo per crimini di guerra, lì ripensa alla propria vita e decide di scrivere le sue memorie. Nella cella accanto alla sua è rinchiuso anche Eichmann, l'artefice della soluzione finale degli ebrei. Entrambi sono accusati di propaganda nazista e genocidio. Campbell in una serie di flashback e narrazioni secondarie ripercorre gli anni del nazismo, l'arresto, il trasferimento a New York e la decisione di tornare in Israele per farsi processare. Alla fine potrà dimostrare di essere stato un agente dello spionaggio americano, ma se non lo si puó più accusare di crimini contro l'umanità , nondimeno su di lui pesano i crimini contro se stesso. Infatti si finisce per essere chi si finge di essere e il confine tra giusto e sbagliato, bene e male, rischia di diventare labile. Campbell arriva anzi ad affermare che occorre a tutti un po' di follia per non sentire il dolore di vivere. Il racconto, presentato come un autentico documento storico, risulta un'attualissima riflessione sulla guerra, la violenza e le loro cause.
Dal libro, pubblicato nel 1961, è stato tratto anche un film interpretato da Nick Nolte nel 1996.
Una perla.
it's a long way to the top if you wanna rock'n'roll...
- kilgore trout
- Primi impulsi
- Messaggi: 33
- Iscritto il: 17/03/2008, 9:06
scusate ma lo noto solo ora...guidolaremi ha scritto:ho letto "ninna nanna" non mi è piaciutodoctorgonzo ha scritto:Avete letto qualcosa di Palahniuk Chuck, lo scrittore di Fight Club.
Consigli?
io vado pazzo per Lansdale,li ho letti tutti,e a parte un paio cosi cosi ,gli altri tutti bellissimi,su tutti "in fondo alla palude"
guido laremi...grande!!!
è stato uno dei personaggi che ho amato di più da fanciullo
grande.
it's a long way to the top if you wanna rock'n'roll...
scusate è vero
comunque come detto è edito da Longanesi, ed è stato scritto da Saburo Sakai, un pilota dell'aviazione Giapponese morto solo pochi anni or sono, un libro in cui egli si racconta, la passione per il volo, e tutto il resto, c'è anche un film ispirato da questo libro "Caccia zero terrore nel Pacifico" ma il libro è decisamente migliore.....Saburo Sakai è discendente da una stirpe di Samurai, egli infatti è detto "il Samurai del cielo" e qui http://cronologia.leonardo.it/storia/bi ... avio04.htm potete trovare un'ampia biografia del personaggio......io non sono un grande amante di libri, ma vi giuro che questo libro l'ho letteralmente divorato....più di 10 non gli posso dare perchè è il massimo, ma lo meriterebbe

comunque come detto è edito da Longanesi, ed è stato scritto da Saburo Sakai, un pilota dell'aviazione Giapponese morto solo pochi anni or sono, un libro in cui egli si racconta, la passione per il volo, e tutto il resto, c'è anche un film ispirato da questo libro "Caccia zero terrore nel Pacifico" ma il libro è decisamente migliore.....Saburo Sakai è discendente da una stirpe di Samurai, egli infatti è detto "il Samurai del cielo" e qui http://cronologia.leonardo.it/storia/bi ... avio04.htm potete trovare un'ampia biografia del personaggio......io non sono un grande amante di libri, ma vi giuro che questo libro l'ho letteralmente divorato....più di 10 non gli posso dare perchè è il massimo, ma lo meriterebbe
danny ha scritto:o almeno l'autore...Ortheus ha scritto:damjan ha scritto:
Il (i) consiglio è sempre benaccetto ma ci vorrebbe un minimo di recensione.