Come si esce dalla guerra in Ucraina? Le 3 strade possibili
Gianluca Mercuri - 25 mag
Putin tenterà di dividerci, bisogna metterlo con le spalle al muro, indebolirlo, magari eliminarlo. Putin non si siederà mai al tavolo se non smettiamo di dare armi all’Ucraina. Putin si può fermare non «umiliandolo», ma dandogli una via d’uscità che in realtà, alla lunga, lo fregherà. Tre approcci diversi che prendono forma in Occidente, dopo tre mesi di guerra. Perché dopo tre mesi di guerra, è il caso di interrogarsi sull’endgame, su come finirà, su come è meglio che finisca. Proviamo a delineare i 3 scenari, che poi sono 3 modi di fare politica, 3 modi di costruire il mondo che uscirà da questa guerra.
1.«A Putin non bisogna concedere nulla» È la tesi dei superfalchi, quelli che — senza indicare un concreto obiettivo militare — puntano però a una sconfitta totale degli aggressori. È una linea che si è fatta strada tra le alte sfere americane, con il segretario alla Difesa Lloyd Austin che per primo ha teorizzato la necessità di «indebolire» la Russia come lascito stabile di questo conflitto. Ma poi per primo ha chiamato il suo omologo russo quando gli europei (occidentali) hanno convinto il presidente Biden a dare una chance alla trattativa. A incarnare la linea dura, però sono soprattutto gli inglesi, che in questa guerra stanno sublimando il quadruplice desiderio di tornare potenza globale, confermare la special relationship con gli americani, dimostrare uno status incomparabile con quello di un’Europa divisa e dare un colpo mortale agli eterni nemici di Mosca.
Non a caso, a dare forma alla linea «nessuna concessione» è William Hague, ex leader dei conservatori ed ex ministro degli Esteri di Londra, una vita da falco euroscettico. Sul Times, avverte fin dal titolo del suo intervento che «la prossima mossa di Putin» sarà «una tregua che divida l’Occidente». Nelle prossime settimane, «quando le sue forze residue saranno quasi esaurite, dichiarerà di aver vinto» e proporrà colloqui che «potrebbero andare avanti per anni, mentre la Russia costruisce un esercito migliore, offrendo un cessate il fuoco agli ucraini». Nel frattempo, i territori occupati chiederanno di essere «incorporati» dalla Russia, ma Putin prenderà tempo «per aumentare la pressione sugli ucraini affinché smettano di combattere». Ma il leader russo «naturalmente farà in modo che questi colloqui non vadano mai da nessuna parte». Il suo obiettivo «è quello di dividere l’Occidente e di porre un terribile dilemma agli ucraini, fingendo di cercare una pace permanente ma mantenendo il suo stivale sulla trachea economica dell’Ucraina : l’accesso al Mar Nero». Quindi, mentre i colloqui si protrarranno per anni, e l’Ucraina «rimarrà un’economia paralizzata», alla fine dirà «che i negoziati sono falliti e la invaderà di nuovo per finire il lavoro».
Per riuscire in un piano del genere, Putin ha bisogno di effettivi guadagni territoriali — di poter dire di aver «liberato» il Donbass e di controllare il Mar d’Azov — e che l’Occidente «faccia pressione su Zelensky affinché faccia delle concessioni». Qui Lord Hague fa pesante ironia sugli europei che secondo lui non vedono l’ora di abbracciare il Putin disponibile alla pace, un Putin che infatti farà «lunghe e ragionevoli telefonate alle loro capitali. Mentre non avrà senso disturbare Londra o Varsavia, il presidente Macron lo ascolterà per ore. Mario Draghi, a Roma, concorderà sull’urgenza di un cessate il fuoco». L’ironia diventa sarcasmo germanofobo sulla presunta indecisione di Berlino: «Il cancelliere Scholz potrebbe non sapere cosa fare». Così, «con un po’ di fortuna», l’invasore potrebbe «produrre una situazione in cui l’Occidente si divide, gli ucraini si sentono traditi, l’Ue non li ammette mai e il Congresso degli Stati Uniti smette di finanziarli». C’è un solo modo per scongiurare questo scenario secondo Hague: non fidarsi per nulla e non concedere nulla, non prendere mai Putin sul serio, non dire mai agli ucraini cosa possono o non possono concedere, mantenere tutte le sanzioni, sostenere tutte le insurrezioni nelle aree occupate, far decidere a Zelensky «qualsiasi piano per un cessate il fuoco», non dividersi, «mantenere i nervi saldi». Insomma: continuare la guerra sine die, continuare a non indicare obiettivi realistici o almeno concreti, con la scusa che spetta solo agli ucraini deciderli. 2. «È ora di tornare a bersi una vodka col vecchio Vlad» Per capire chi sia interessato a questo secondo scenario — lo scenario tendente all’appeasement, intendendo per appeasement una pacificazione solo provvisoria ottenuta tramite concessioni pesantissime — è utile la lettura di Sylvie Kauffmann sul Financial Times. La giornalista ricorda le parole con cui, tre giorni prima dell’invasione, l’ex presidente Dmitry Medvedev, ventennale compagno di merende di Putin, assicurò al leader che la reazione occidentale non sarebbe stata un problema: «Sappiamo cosa succederà. Ci saranno pressioni e sanzioni. Ma dopo un po’ la tensione si placherà. Prima o poi si stancheranno e ci chiederanno di riprendere le discussioni e i colloqui su tutte le questioni che garantiscono la sicurezza strategica. Ammettiamolo, la Russia significa molto più dell’Ucraina per i nostri amici negli Stati Uniti e nell’Ue». Finora Medvedev si è sbagliato perché l’Occidente ha mostrato una formidabile unità, ma dopo tre mesi quell’unità mostra crepe inevitabili. Perché? Perché c’è tutta una serie di interrogativi che sono rimasti senza risposta, una risposta che i falchi non vogliono o non possono dare. E cioè: «Cosa significa “vincere”? La vittoria consiste solo nel respingere i russi al punto di partenza del 24 febbraio? O significa anche riprendersi i territori occupati dal 2014, cioè la Crimea e due regioni del Donbass? Se la leadership ucraina decide che le sue forze armate devono condurre una controffensiva per recuperare tutto il territorio, l’Occidente continuerà ad aiutarla? Cosa dovrebbe far scattare la revoca delle sanzioni? Se la vittoria dell’Ucraina significa la sconfitta della Russia, quanto dovrebbe essere pesante la sconfitta? Se questa è una contesa tra due ordini mondiali, uno basato sulle regole e l’altro sulle sfere di influenza, come può essere un accordo?». Senza risposta a queste domande, gli «amici della Russia» evocati nel discorso di Medvedev si stanno riaffacciando. Come? Evocando trattative frettolose, sgangherate, basate sul presupposto che bisogna smettere di mandare armi agli ucraini, quindi di fatto indurli a una resa precoce e a una pace punitiva. In Italia «gli amici della Russia» sono ben distinguibili: in ordine alfabetico, Berlusconi, Conte e Salvini. In Germania, c’è tutto un establishment, che va dall’apparato industriale a settori della socialdemocrazia, che teme un ordine diverso da quello in cui la Germania è prosperata in questi decenni. E poi gli ungheresi, gli slovacchi. Un approccio che non cerca l’obiettivo intermedio, finire la guerra ma senza darla vinta a Putin. Un approccio che anzi offre a Putin «ponti d’oro» inconcepibili dopo le atrocità di cui si è macchiato. 3. La «via afghana» per uscire dalla guerra Ecco, finalmente, una terza via plausibile. La offre il politologo Dominic Tierney su Foreign Affairs. Ricorda, lo studioso, la sceneggiata del 15 febbraio 1989, quando «il generale sovietico Boris Gromov attraversò il Ponte dell’Amicizia dall’Afghanistan all’Unione Sovietica, dove fu accolto dalle telecamere della televisione sovietica e ricevette un mazzo di garofani rossi». Una sceneggiata per far vedere che i russi si ritiravano ordinatamente fino all’ultimo soldato, un generale, non come gli americani a Saigon. Ma più che una sceneggiata «era una farsa. Gromov aveva trascorso la notte precedente in un hotel sovietico e si era recato in Afghanistan solo per inscenare l’uscita».
Ecco, bisogna dare a Putin la stessa cosa: non ponti d’oro, ma «un ponte a forma di gabbia», una via d’uscita abbastanza attraente da consentire al regime di bluffare sulla vittoria, ma in realtà indebolendolo davvero, nel tempo. «Il risultato potrebbe non essere la vittoria totale prevista dai falchi: i soldati ucraini non riusciranno a cacciare le truppe russe dal Donbass. Ma sarà comunque una vittoria sostanziale per Kiev». Vediamo perché, approfondendo il parallelo afghano. Nel 1988, gli Accordi di Ginevra chiusero la guerra decretando un graduale ritiro sovietico. Gli Stati Uniti si riservarono il diritto di continuare ad armare i ribelli, e il regime fantoccio introdotto dai russi sopravvisse solo altri 4 anni. «I falchi di Washington, che volevano vedere Mosca indefinitamente impantanata in Afghanistan, si opposero anche a un accordo di facciata. Ma alla fine furono sconfitti dai “trattativisti”, che erano disposti a offrire concessioni simboliche per far uscire Mosca e sapevano che la guerra sarebbe stata comunque ampiamente vista come una debacle sovietica». Una debacle che tutti gli storici considerano il preludio al crollo dell’Urss. Naturalmente con l’Ucraina di oggi ci sono differenze, ma anche importanti analogie: un invasore sclerotizzato e supponente, una resistenza sorprendentemente efficace armata dagli occidentali. E naturalmente bisognerà trovare un equilibrio, un equilibrio tra la sconfitta totale dei russi che vorrebbero i falchi e la vittoria sostanziale dei russi che vorrebbero i loro amici, quelli che dicono «basta armi a Kiev». L’equilibrio, concretamente, necessiterebbe di un’Ucraina che rinunci ai suoi obiettivi massimi — il ritiro russo dalla Crimea e da tutto il Donbass, riparazioni miliardarie direttamente da Mosca — e persegua un obiettivo molto più strategico: «Se alla fine l’Ucraina emergerà come una democrazia stabile, ricostruita con miliardi di dollari di fondi e beni russi congelati all’estero, allora sarà una testimonianza vivente della sconsideratezza di Putin. L’Ucraina sarà un faro di libertà e la sua eroica resistenza potrà dissuadere altri Paesi da atti di aggressione. E il ricordo di una guerra fallita in Russia potrebbe suscitare dubbi sul giudizio del Cremlino che, col tempo, potrebbero minare il regime di Putin, proprio come l’Afghanistan ha contribuito a far crollare il sistema sovietico». Per questo l’Occidente non ha bisogno di «umiliare» la Russia, come dice Macron, non ha bisogno cioè di cercare un ko immediato che sarebbe troppo dispendioso per tutti, pericolo nucleare incluso. Non c’è bisogno di umiliare la Russia perché lo ha già fatto benissimo Putin, e i russi lo sanno, o lo capiranno: «Putin controlla i media e dichiarerà la vittoria qualunque cosa accada. Ma i russi non possono rimanere per sempre ciechi di fronte ai costi dell’invasione e si renderanno lentamente conto di aver perso migliaia di soldati senza alcun vantaggio reale. Avvertiranno l’enorme danno economico provocato dall’isolamento globale e saranno consapevoli che la guerra ha spinto la Finlandia e la Svezia nella Nato», un esito strategicamente molto più significativo di un’Ucraina che ne resti fuori. Questa terza via è quella scelta da Macron e da Draghi, che per questo chiedono a Biden di chiamare Putin ma senza smettere di armare gli ucraini. Si tratta di costruire il «ponte-gabbia» per l’invasore. Ovvero, una vittoria sostanziale che negli anni sarà sempre più evidente.