
Da Esploratore del Porno a 'Pornografaro'
Ha solcato gli oceani dei generi cinematografici con la saggezza del marinaio d’esperienza. S’è sporcato le mani con le frattaglie risciacquandole poi alla fonte della sensualità. Spesso gli è capitato senza volerlo di fare la storia, tra l’erotismo e l’esotismo di un’Emanuelle e mondi deflagranti fatti di antropofagi e porno olocausti. Il suo cinema è stato un inno fatto di hard e soft sensations, in cui la necessità di riciclarsi si è sposata con le velleità creative concesse da budget e mercati ingrati. Ha iniziato da assistente del fotografo di scena, trovandosi davanti Anna Magnani e Duncan Lamont ne ‘La Carrozza d’Oro’ di Jean Renoir, ha finito filmando, tra le altre cose, le acrobazie sessuali del duo Rocco Siffredi - Rosa Caracciolo in un ‘Tharzan X’, versione porno delle avventure dell’eroe della giungla. E nel mezzo Aristide Massaccesi ha vissuto tante vite e tanti film, perché difficilmente nella sua esistenza le due dimensioni - vita e cinema - possono essere scisse.
Poco importa che si parli di lui come Joe D’Amato anziché Alexander Borsky, o ancora Michael Wotruba, Dario Donati, Raf De Palma aka Michael Di Caprio: alla fine è stato sempre lui, l’uno, nessuno e centomila del cinema di genere italiano. Cinema di genere in cui Massaccesi si è creato un vero e proprio microcosmo - o galassia, per meglio dire, una fittissima produzione che, senza nulla togliere agli episodi di stampo spaghetti western, si è prontamente indirizzata tramite un intermezzo decamerotico all’esplorazione della linea sottile che unisce amore e morte, Eros e Thanatos, colti nei loro aspetti più carnali. Nel cinema ‘damatiano’ degli anni Settanta, giustamente celebrato e ampiamente descritto altrove, si verifica un’escalation di tensione tra la vitalità della visione erotica e la morbosa attrazione derivante dall’esibizione della morte violenta, che ottiene il suo apice laddove il sangue si fa rosso e il sesso si tinge di nero: interazioni queste non solo cromatiche ma anche concettuali, a sancire un’inscindibile liason tra pulsione/perdizione sessuale e vocazione al nefasto, all’orrido, al putrescente.
L’occhio che uccide - per citare il titolo di un fondamentale thriller di Michael Powell - è lo stesso che ha ‘voglia di guardare’: ecco dunque che il cerchio si chiude. E il miglior Aristide Massaccesi aka Joe D’Amato si trova proprio lì, intento ad ammaliare lo spettatore con un soft rarefatto che poi si scopre porno per poi fustigarlo con ferocia. Lungi dunque dal voler ripetere una disamina della prima parte della carriera del nostro, mi limito a ribadire la necessità di comprensione di un dualismo che sedimenta su di una solida base erotico-avventurosa: una sorta di triangolo i cui estremi sono rappresentati da ‘Emanuelle in America’, ‘Buio Omega’ e ‘Sesso nero’. Questi i tre cardini da cui scaturisce una fioritura di titoli risalenti al periodo 1977/1980 che contemplano ‘Le notti erotiche di morti viventi’ (mai titolo fu così paradigmatico di un’intera carriera) giustapponendolo alle mostruose visioni di un ‘Antropophagus’ e al sesso ‘svogliato’ - eppure indimenticabile - di ‘Porno holocaust’, solo per citare alcuni dei casi più eclatanti.
Uno scivolare dal soft all’hard inesorabile, inevitabile ma non gratuito quello del Joe D’Amato del suddetto periodo, che, soppiantando l’horror tout-court, sperimenta una strada narrativa trasversale in cui innestare scene porno diegeticamente giustificate e quindi rispondenti alla logica della trama. Dopo la prova generale di ‘Immagini di un convento’, il risultato della visione dei già citati ‘Sesso nero’, ‘Porno holocaust’, ‘Hard sensation’ rappresenta una variante del cinema di genere che, per quanto estrema, è ben lungi dall’esserne una deriva. Riguardo a questo periodo, Aristide/Joe D’Amato ricorda ad Antonio Tentori in un’intervista del 1995: ’Tanti anni fa feci un film, quando cominciai a fare i film porno, che si chiamava Sesso Nero. Era un film molto indovinato perché c’era una storia, tutta ambientata a Santo Domingo (…) tutta una storia (…) collegata a fatti successi vent’anni prima. Andò bene, ed ebbe un grande successo’.

Proseguendo sulla strada del porno, Aristide ‘abbandona’ temporaneamente l’identità di Joe D’Amato per assumere quella di Alexander Borsky. Sotto questo pseudonimo il regista gira una serie di 14 hard nella stagione 1080-81 caratterizzati da basso budget, tempi di ripresa molto più veloci che in precedenza, trame ridotte a canovacci più essenziali e definitivo accantonamento dell’elemento horror. Laddove prima si riprendeva en plan air, memori delle spiagge domenicane che salvaguardavano quel quid di turistico introdotto nella serie degli Emanuelle’s, qui abbiamo shooting in interni. A fronte di un ridimensionamento della qualità prettamente cinematografica, titoli quali ’Super climax’ o ‘Sesso acerbo’ guadagnano nello specifico pornografico - più accurata e ‘dedicata’ la ripresa delle scene hard, che diventano a tutti gli effetti il corpus delle pellicole, vuoi per il maggior minutaggio che per l’assenza di distrazioni ‘narrative’ o psicologiche a cui lo spettatore non è richiamato più di tanto.
Ecco: è adesso che Massaccesi si trasforma da esploratore del porno in ‘pornografaro’ vero e proprio, adottando tempi di realizzazione volti a massimizzare i risultati con sforzi più contenuti. La produzione di pellicole pornografiche come catena di montaggio, dunque: una catena ‘allegra’ - sappiamo che il clima sul set era estremamente cordiale e rilassato - di cui ‘Alexander Borsky’ è mastermind esecutivo e decisionale.
Essendo alla fin fine molto simili nel cast e nella dinamica delle performance, questi prodotti possono dirsi alla lunga investiti da una sorta di ‘aurea mediocritas’ qualitativa. Pare infatti di assistere ad un unico film con varianti minime, la cui puntualità realizzativa rende comunque la visione piacevole e focalizzata su un’aspettativa pratica e largamente soddisfatta.
Volendo soffermarsi sul cast delle produzioni a nome Borsky, è inevitabile constatare come le attrici destinate alle scene hard garantiscano un più ampio sentore di coinvolgimento nelle performance che le vede coinvolte. Segno anche questo di un maggior savoir faire nel fare sesso davanti ad una macchina da presa, che evidentemente mancava alle donne dei film caraibici (Annj Goren e Lucia Ramirez soprattutto). Le varie presenze ricorrenti in questa seconda filone massaccesiano si chiamano Sabrina Mastrolorenzi, Laura Levi, Pauline Teutscher e Françoise Perrot. Verso quest’ultima - visibile in ‘Voglia di sesso’ tra gli altri - Aristide ebbe belle parole durante un’intervista a Franca Faldini e Goffredo Fofi datata 1984: ‘Quella che aveva molto piacere a farlo (…) era Françoise Perrot (…) Voleva fare questi film per provare quest’esperienza. Le altre in genere sono tutte uguali’.
In seguito a questo corpus di film, molti dei quali girati all’interno di una stessa villa affittata per l’occasione, il porno di Massaccesi si tinge di peplum ed acquisisce così quel sapore ’storico’ che verrà poi ampiamente riproposto dal nostro nella sua produzione degli anni ’90. Stiamo parlando del trittico ‘Caligola…la Storia Mai Raccontata’, ‘Messalina Orgasmo Imperiale’ e ‘Una Vergine per l’Impero Romano’ ascrivibili alla stagione 1982/83 ma girati nel 1981. Il ‘Caligola’ massaccesiano, in cui il regista è accreditato come David Hills, segna il ritorno ad un contesto violento ed efferato secondo uno schema che tenta di seguire il ben più sontuoso e ambizioso ‘Caligula’ diretto da Tinto Brass nel 1979, finendo per esserne una versione low budget votata ad un estremismo gratuito e sopra le righe. Nondimeno il film conferma come D’Amato si trovi a suo agio nel proporre alla propria maniera storie ‘in costume’, rielaborandole e semplificandone i risvolti in modo da renderle idonee ad una fruizione più ‘popolare’ e meno pretenziosa. Questo a discapito della dimensione psicologica dei personaggi, si dirà: vero, del resto ha ragione chi sostiene che Massaccesi, pur non amando la soluzione pornografica poi sposata in toto, non ha mai aspirato al cinema d’autore propriamente detto. La sua grande capacità risiede, a parere di chi scrive, nel trovare una giusta via di mezzo in cui salvare una cornice narrativa godibile e suscettibile di interpolazioni soft/hard che arricchiscano, senza prevaricare, la natura del prodotto.
Accolto negativamente dalla critica pressoché all’unanimità, questo suo ‘Caligola’ può essere visto anche come una sorta di crepuscolo e ‘caduta degli dei’ del primo Joe D’Amato: in un sola pellicola confluiscono infatti Laura Gemser, musa evergreen del nostro fin dal decennio precedente, Manlio Cersosimo/Mark Shanon, autentico prototipo della generazione maschile italiana dei pornoattori e volto/corpo ben noto nei film di Aristide, più un nutrito stuolo di pornoattrici già presenti nelle produzioni Borsky sopra descritte (le varie Levi, Mastrolorenzi, Teutscher, Roussial). Se si tiene conto che gli altri due ‘porno peplum’, ‘Messalina’ e ‘Una Vergine’, altro non sono che film di recupero che utilizzano gli stessi costumi e scenografie del già citato ‘Caligola’, si arriva alla pratica della generazione di nuovi titoli partendo dalla regia vera e propria di un unico film, riproposto poi al pubblico opportunamente rimontato e alterato nella trama portante: si tratta di un’arte del recupero e del riciclo di prodotti cinematografici in cui Aristide si dimostra già abile fin da tempi non sospetti nel mercato dell’hard, e che diventerà pratica usuale nella collaborazione ricorrente con Franco Lo Cascio/Luca Damiano nel decennio a venire.
Appendice: l’hard nei due Caligola
Appare piuttosto ingeneroso confrontare il contenuto hard della pellicola ‘Io Caligola’ con quanto di porno si vede in ‘Caligola…la Storia Mai Raccontata’. Al netto dei richiami softcore del film ascrivibile solo in parte a Brass, la principale differenza dello specifico hardcore delle due opere sta tutta nella qualità delle scene proposte, e, va da sé, nel fascino e nella ‘dedizione’ delle attrici coinvolte.
Nella versione in lingua italiana visionata del film di Massaccesi (per una durata totale di 1:58:12) assistiamo alla prima scena hard dopo 48 minuti e 50 secondi. Il tutto consiste in una fellatio di Nadine Roussial: il membro maschile lo vediamo in una inquadratura frontale solo venti secondi dopo. La performance è frequentemente interrotta da stacchi sui dettagli delle ancelle circostanti, colte nell’atto di masturbarsi (tra queste, Sabrina Mastrolorenzi). La sequenza è idealmente conclusa dal primo piano su Laura Gemser al 51:19, presentando dunque una durata inferiore ai tre minuti.
All’altezza dell’ora di film (1:01:42 per la precisione) abbiamo un ulteriore pompino ripreso con camera a mano, che dà il via ad un significativo segmento orgiastico in cui anche la Mastrolorenzi è alla prese col sesso orale, in cooperazione con Nadine Roussial. E’ la volta d’una fellatio di Pauline Teutscher che passa poi alla penetrazione, il tutto intervallato da un altro groviglio di corpi e anatomia varia piuttosto confuso, rabberciato e ripetitivo (si torna sulla Roussial, sempre intenta nella performance già citata, si dà uno sguardo a Laura Levi alle prese sia con Mark Shanon che con una ragazza bionda, si sbirciano lingue e tentativi di eiaculazione più o meno riusciti). Poco meno di sette minuti dopo è ancora il volto statuario della Gemser a interrompere il frammento hard, di cui si continuano a udire i vari sospiri. Ma è solo un attimo: eccoci dunque al 69’ minuto ad osservare la Matrolorenzi che, viso dolce e occhi socchiusi, si trova in un ventaglio di tre uomini di cui non si scorgono comunque gli attributi. Di maggiore impatto allora è la masturbazione impartita dalla Levi ad un uomo di colore, il cui membro beneficia anche di un breve primo piano: va detto che Laura appare presa da una lascivia gestuale e facciale che non fa rimanere indifferenti. Anche in questa seconda porzione di orgia il regista tende a raccogliere all’interno dello schermo vari frammenti di performance sessuali col consueto metodo della ripresa in continuità, a sottolineare i momenti di simultanea lussuria collettiva.
Una volta risolta questa ‘pratica’, la quota hard del film può dirsi risolta: fatto salvo un momento erotico di unione di Laura Gemser con David Brandon (nel ruolo di Caligola), i restanti 47 minuti di film sono dedicati interamente al racconto.
Nel contesto sopra descritto, di notevole intensità recitativa appare la scena relativa all’’offerta della verginità’ della suddetta Gemser al ‘Principe delle Tenebre’: in suo onore la donna si deflora con un grosso fallo che pare di legno. La penetrazione non è visibile, quindi a rigore non me la sento di parlare di hard a tutto tondo, nondimeno la smorfia di dolore finale rende il tutto intenso, sofferto e non privo d’un certo erotismo.
A beneficio d’inventario, va aggiunto che esiste un’altra versione del film in lingua inglese, intitolata ‘Caligula 2: The Untold Story’, della durata di 2:06:04. In questo caso abbiamo un’ulteriore scena hard assente nella versione italiana: si tratta di una masturbazione equina effettuata da una donna non identificata su uno stallone introdotto nella sala in cui sta avendo luogo l’orgia di cui abbiamo appena parlato. Il tutto si protrae per 4 minuti a partire dal 1:04:05 circa, alternando i momenti di contatto mano/membro con scorci del baccanale che di lì a poco verrà mostrato nel modo già descritto in precedenza.
Per quanto riguarda invece il Caligola datato 1979, sono ben note le numerose traversie incontrate in sede di sceneggiatura e regia per la realizzazione di questo kolossal dell’eccesso. Non lo prendiamo qui come fonte di analisi, ma semplicemente come testo di confronto per quanto attiene alle sequenze hard volute e girate non da Tinto Brass, bensì da Bob Guccione e Gianfranco Lui. Forte della durata di 2:36:02, la Penthouse Edition dovrebbe essere ad oggi la versione più completa di quest’opera mastodontica, ragionevolmente comprensiva di tutti quelli che pensiamo essere i tagli apportati alle numerose versioni uscite in precedenza.
Fin dal primo breve ‘flash’ porno, dopo 18:10 minuti dall’inizio del film, appare chiaro il sontuoso lavoro del direttore della fotografia Silvano Ippoliti a prediligere colori saturi, esasperati nella loro intensa tonalità e mitigati da un uso teatrale dei chiaroscuri. C’è tutto un ampio contesto di amplessi che, seppur non dettagliati, ‘circondano’ le inquadrature in una lussureggiante orgia che Malcom McDowell osserva con quel suo sguardo spiritato. Il montaggio è veloce, non ci si dilunga sulle performance ma se ne hanno assaggi brevi e visivamente gustosi. Dopo 1:02:25 McDowell e Therese Ann Savoy si dilettano nell’assistere a voluttuose scene saffiche. La qualità delle Penthouse Pets volute da Guccione per i frammenti supersoft è di prim’ordine, ancora una volta la fotografia ci restituisce immagini dal cromatismo quasi pittorico. All’altezza dell’1:21:28 una dominante di rosso in penombra ci introduce ad un momento lesbo decisamente caldo e ben ripreso: si indugia lentamente sui corpi di Anneka Di Lorenzo e Lori Wagner esaltandone le reciproche effusioni e il magnifico cunnilingus. Laddove la macchina da presa di Massaccesi stacca ripetutamente sui dettagli, qui si riprende la performance con una panoramica intima e carezzevole conclusa da un impetuoso 69: sono passati solo due minuti e mezzo, eppure abbiamo la sensazione d’aver assistito ad un woman vs woman tra i migliori dell’intera storia del cinema erotico. Detto di un breve pissing in dettaglio tutto al femminile, arriviamo infine alla celeberrima scena dell’orgia che costituisce da sempre uno dei tagli più clamorosi delle varie versioni ‘sforbiciate’. Le Pets sono splendide, poco da dire. Tra le altre, riconosciamo due fellatio rispettivamente da parte di Jane Hargrave e Signe Berger, l’estasi di Carolyn Patsys nel succhiarsi avidamente le dita, un intenso primo piano di Susanne Saxon, poi ripresa con una zoomata in lesbo action con la già citata Carolyn. Il corpo ‘multiuso’ di Valerie Rae Clark si presta a lesbicare con Carolyn ricevendo nel frattempo un cunnilingus da attore non identificato, quindi ecco un breve stacco sulla ‘cavalcata’ di Lori Wagner. Si tratta, nel complesso, di un montaggio sequenza in cui vengono dedicati brevi inquadrature a ciascuna attrice, il tutto per un minuto e venti circa prima di tornare su McDowell che ‘arringa’ la folla ad abbandonarsi alla lussuria. Nel segmento seguente (siamo arrivati alle due ore e dodici minuti) si prosegue sulla stessa linea, assistendo anche per alcuni istanti ad un golaprofonda da parte di Signe Berger, subito coadiuvata da Anneka Di Lorenzo.
Se dovessimo scegliere una dimensione registica autoriale per l’hard, le riprese di questa ‘additional scene’ a cura, presumiamo, di Bob Guccione, sono quanto di più vicino alla nozione di ‘porno d’autore’ ci vengono alla mente: donne bellissime e vogliose che sanno ‘recitare’ il sesso senza limitarsi ad eseguirlo, uomini con degne erezioni, indiscutibile perizia regisitica nel non eccedere (e quindi nel non annoiare), gusto barocco nel fotografare.
Detto questo, ecco forse la macroscopica differenza che intercorre tra i due ‘Caligola’ esaminati: l’ostentata autorialità di Brass/Guccione, la consapevole messa in scena artigianale dell’arrangiamento di un Massaccesi che fa, come sempre, di necessità virtù. Almeno, nei limiti a lui concessi dal budget e da un cast tutt’altro che irresistibile. Bisogna comunque tener presente che tra i due film non c’è nessuna relazione di sorta: per cui il fatto che il prodotto di Aristide sia titolato all’estero come ‘Caligola 2’ è una inesattezza, visto che non si pone in alcun modo come sequel del primo. Per questa ragione il confronto appena fatto si muove inevitabilmente su binari cinematografici differenti, andando a scontrarsi su quelle barriere economiche e creative che separano il cinema di genere da quello di pretese più alte, non sempre mantenute.
continua...