Il mistero degli ossi di pesca
Dice il saggio: "Prima di intraprendere il viaggio della vendetta, scava due fosse".
Siccome il caldo africano latita, ma c'è quello d'agosto italiano, ho pensato di portarmi avanti per la gita della vendetta
e cominciare a scavarne una nell'orto: due metri per uno. Alla peggio, ci si sta in due rannicchiati come nel Neolitico.
Alla meglio, ci stanno le frutta acerbe o mangiate dall'insetto, e sopra la zucchina e il ravanello.
Dice infatti Matsuo Bashō:
Amo quell'uomo
che pianta il ravanello
al chiar di luna
Per scavare si usa la vanga, andando all'indietro, perché altrimenti si calpesta la zolla e lo scavo s'impesta.
Si va all'indietro e si infila la vanga. Si ruota la vanga e si gira la zolla. Si taglia la zolla e si rialza la vanga.
E' un ciclo che si ripete indefinitamente e ti fa pensare alla vita semplice di un tempo,
e a quanto sia bello poterla rivivere coprendo di un fine velo di terra i grovigli della modernità infestante.
Per un'ora.
Ogni tanto.
Couché tard, levé matin (c'est pas ça qui fait du bien)
de l'eau fraîche et du pain vieux (ça ne rend pas vigoureux)
Ma anche la semplicità del ciclo terra-germoglio-pianta-frutto-seme ha i suoi arcani: nello specifico,
ossi di pesca.
Uno qua uno là, ovunque: ad ogni vangata ne salta fuori uno. Mai visti tanti tutti insieme.
Mi giro a guardare gli alberi, se fosse colpa loro. Ma sono peri. Un caco. Frassini autoinvitatisi.
Come l'anno scorso e l'anno prima, e l'anno ancora prima.
Un messaggio occulto?
Un goffo tentativo di avvelenamento? (Chi semina ossi di pesca nell'orto del vicino?)
Generazione spontanea?
Mimetismo aposematico?
Lusus naturae?
Forse il bislacco di vivere ho incontrato?