E se i russi avessero invaso la Germania e Hitler fosse stato costretto a fuggire a Londra per lavorare come detective privato? Lo avete già capito: stiamo parlando di una ucronia (scritta da un autore ebreo)
Il personaggio di Adolf Hitler è così emblematico che spesso ci si è trovati in difficoltà nel profilarlo dal punto di vista psicologico, cercando motivazioni umane ai suoi atti disumani.
Chi era esattamente? L’incarnazione del male assoluto o uno stupido la cui stupidità, perfettamente combinata con un periodo storico preciso, ha dato vita a quel che sappiamo? Hitler era così cattivo o forse lo erano ancor più i vari Göring e Goebbels che lo circondavano e alla fine la sua figura è stata ingigantita?
Difficile capire chi fosse Hitler e difficile renderlo un personaggio narrativo che non cada nella facile tentazione del cliché appunto di malvagio del Novecento. Per evitare questa eventualità, l’autore di Wolf (Frassinelli, 17 euro, disponibile dal 19 gennaio), Lavie Thidar cosa fa? Cambia prima di tutto la Storia con la s maiuscola: inscena una ucronia dove, nel 1933, la Germania è stata invasa dai russi e il nazionalsocialismo soppiantato dal comunismo. Al pari degli ebrei, i gerarchi del nazismo si sono trovati costretti a fuggire, in cerca di una terra che li ospitasse, molti sono finiti in Inghilterra.
Hitler incluso che da grande condottiero di un Paese che sognava di conquistare il mondo, per sbarcare il lunario, si trova costretto a vivere sotto falsa identità e a fare l’investigatore privato, in un quartiere di Londra bazzicato da puttane e assassini in stile Jack Lo Squartatore.
Le premesse di Wolf sono queste: abbiamo a che fare con un Adolf Hitler uguale nelle sue inclinazioni, nei disturbi della personalità, a quello reale, ma calato in una ucronia che lo vede uomo tra gli uomini.
Un malvagio inespresso. E in una Londra decisamente noir, al soldo di chi lavora l’investigatore privato Adolf Hitler? Paradosso dei paradossi per una ricca ragazza ebrea di nome Isabella Rubinstein con cui intreccia una relazione sadomasochista in cui si fa umiliare in tutti i modi. Mentre indaga, Adolf-Wolf è sfiorato e coinvolto da una girandola di personaggi realmente vissuti come Oswald Mosley, fondatore dell’Unione Britannica dei Fascisti (e simpatizzante di Adolf e della causa dei “poveri” nazisti fuggiti dalla Germania comunista) e Leni Riefenstahl (foto sotto), regista, attrice e documentarista tedesca; a una festa incontra addirittura Ian Fleming, l’autore di James Bond. Poi ha a che fare con organizzazioni come l’OSS, Office of Strategic Services (una sorta di CIA) nel momento in cui gli americani hanno interesse a riportare il nazismo in Germania per scacciare il comunismo, o la Jewish Territorial Organisation.
Mentre leggevo questo romanzo che stravolge la Storia con disinvoltura diciamo con allegria, sfiorando il grottesco, proprio come avviene nelle ucronie odierne, mi chiedevo con quale spirito potesse affrontarlo un lettore ebreo. In Wolf, Hitler rimane un personaggio spregevole, ma certe sue pose alla Robert Mitchum, le scazzottate, gli inseguimenti, lo spirito caustico che sfodera quando viene interrogato dalla polizia britannica, lo rendono quasi simpatico al pari di certi duri di James Ellroy. Forse i tempi sono cambiati. O forse il peggio che si possa fare ad Hitler è proprio questo: maltrattare la sua figura storica, togliergli di dosso la divisa di Führer, fargli indossare gli abiti dimessi di un investigatore da quattro soldi. Renderlo vittima lui solo del proprio delirio di onnipotenza (memorabile la scena in cui a un party, un Hitler frustrato e incredulo al pari di un autore esordiente che si vede rifiutare il proprio manoscritto, incontra un agente letterario che gli spiega che il Mein Kampf, è fuori catalogo, non interessa più, roba vecchia).
