[O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

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il tranquillo
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#211 Messaggio da il tranquillo »

BanitoXXX ha scritto:Comunismo e nazionalismo panslavista sono ben differenti.

teoricamente si... in pratica però c'era gente come il comunista milosevic che era ferocemente nazionalista...

ricordo una definizione di stalin fatta da uno storico inglese ( mi pare fosse Correlli Barnett ma non ne sono sicuro):

"Era un georgiano purosangue che alla fine è diventato un diavolo di nazionalista russo, ma teniamo presente che lo zio Joe era davvero uno strano tipo...."

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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#212 Messaggio da BanitoXXX »

il tranquillo ha scritto:
BanitoXXX ha scritto:Comunismo e nazionalismo panslavista sono ben differenti.

teoricamente si... in pratica però c'era gente come il comunista milosevic che era ferocemente nazionalista...

ricordo una definizione di stalin fatta da uno storico inglese ( mi pare fosse Correlli Barnett ma non ne sono sicuro):

"Era un georgiano purosangue che alla fine è diventato un diavolo di nazionalista russo, ma teniamo presente che lo zio Joe era davvero uno strano tipo...."
Anche Tito era comunista e nazionalista. E imperialista come da lui Gilas e Kardelj ben dimostrato sia nei fatti che nelle intenzioni.

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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#213 Messaggio da BanitoXXX »

mercoledì 03 febbraio 2010

Finalmente anche da parte ex jugoslava si comincia a studiare la tragica vicenda bellica di quella che fu definita la «provincia più distrutta» della Penisola. 54 bombardamenti aerei alleati, sollecitati da Tito, rasero al suolo l’80% della «Venezia dei Balcani»: una strage di civili inutile, anche perché la città non era mai stata un centro operativo dei nazisti

di Paolo Simoncelli su "Avvenire" del 3 febbraio 2010

Alla fine del 2009 sul periodico zagrebino Globus è apparso un intervento dello storico Jakovina dell’Università di Zagabria sulla tragica vicenda dei 54 bombardamenti aerei alleati che tra il novembre 1943 e il marzo 1944 rasero al suolo Zara, la «Venezia dei Balcani». L’intervento merita rilievo per più ragioni: intanto come segnale di svolta di un precedente atteggiamento croato nazional¬comunista, tetragono e chiuso ad ogni ripensamento delle tragiche vicende belliche nei Balcani; segnale che determina finalmente un clima cordiale e disteso nei rapporti tra Croazia, Italia ed Unione europea.

Né a caso ad ospitare l’intervento di Jakovina è lo stesso periodico che nel febbraio 2007 aveva preso posizione a favore del presidente Giorgio Napolitano che, per aver ricordato con coraggio la tragedia delle foibe in occasione del primo «Giorno del ricordo» da lui celebrato al Quirinale, era stato ipso facto attaccato con virulenza, persino con ingiuriose e inaccettabili accuse di razzismo, dall’allora presidente croato Mesic.

Nel merito della questione, l’intervento di Jakovina mette a confronto la distruzione di Zara con quelle di Dresda, Amburgo e delle altre città tedesche bersaglio di attacchi aerei indiscriminati, per risalire a discussioni storico-militari (e oggi anche «morali») sulla strategia aerea alleata. Ne risulta un quadro essenziale, attento, mai polemico, in cui intanto vengono separate le responsabilità americane da quelle inglesi che prevalsero: bombardamenti notturni sulle città per colpire, anche con bombe al fosforo, la popolazione civile, mentre gli americani li avrebbero preferiti diurni e mirati a complessi industriali e logistici. Poi vengono esaminati gli effetti politici: nessun cedimento popolare e tanto meno sollevazioni, piuttosto radicamento del rancore specificamente anti-britannico ancor più dinanzi a titoli come «Amburgo hamburgherizzata» dei quotidiani inglesi.

Ma soprattutto nessuna utilità pratica: nell’immediato dopoguerra venne riconsiderato il problema non solo morale (il massacro e l’arsione della popolazione delle città che, con gli uomini al fronte, erano abitate per lo più da invalidi, convalescenti, donne e bambini) ma operativo, calcolando che le migliaia di aeroplani e le infinite tonnellate di esplosivo – se impiegate sui vari fronti – avrebbero potuto contribuire a vincere assai prima la guerra, e con assai meno morti civili. Infine alcune considerazioni specifiche su Zara, con finalmente il riconoscimento dell’inutilità della sua distruzione non essendo mai stata la città, come voluto dalla propaganda titina, il centro dei rifornimenti tedeschi nei Balcani. Dei 35 mila abitanti precedenti la guerra, non ne rimasero che settemila, sfollati però nelle campagne, mentre nella città, distrutta per l’80%, sopravvivevano solo un centinaio di persone. Morti, distruzioni, occupazioni tedesca prima e titina poi, resero spettrale la città. I sopravvissuti per voler rimanere italiani dovettero fuggire verso Trieste, vivendo da allora in esilio anche dalla memoria.

Possiamo aggiungere che oggi Zara rappresenta ancora un problema diplomatico poco noto seppure non nascosto, comunque incredibile in un ambito ormai di integrazione europea sempre più vasto. In riconoscimento delle sofferenze patite dai suoi cittadini durante i terribili bombardamenti (che ne fecero il più distrutto capoluogo di provincia italiano) e per premiarne «l’amore per la Patria comune e la fiducia nei valori che unirono tutti gli italiani», il 21 settembre 2001 l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi firmò il decreto che conferiva al gonfalone di Zara italiana la medaglia d’oro al valor militare. La relativa motivazione – che si riferisce agli anni 1940-45 – malgrado in più punti apparisse diplomaticamente contorta e storicamente illogica provocò comunque reazioni diplomatiche croate che ineffabilmente impedirono che al decreto già firmato venisse dato seguito pratico. Risultato: quelle tragiche sofferenze, l’irrevocabile esilio e gli inimmaginabili stenti che erano stati il prezzo di quell’«attaccamento alla Patria» finalmente riconosciuto nel 2001, appena reso noto veniva per ciò stesso beffardamente punito da una pronta adesione alle protestate esigenze d’uno Stato estero, altrettanto illogiche – va pur detto – di non pochi passi della stessa motivazione della medaglia; istanze che si rivelavano infatti tradizionali standard della propaganda titina, cioè paradossalmente dello stesso violento regime che appena in un tragico, recente passato, proprio in Croazia aveva mietuto vittime sacrificali al desiderio popolare di indipendenza e democrazia.

C’è dunque da chiedersi se non sia finalmente giunto il momento di dar seguito a quel decreto (mai revocato!) che obbliga a conferire, senza il minimo retropensiero sciovinistico, la medaglia al gonfalone italiano di Zara, per cui un’apposita cerimonia era già stata puntualmente indetta per la mattina di martedì 13 novembre 2001 ma, per le sopraggiunte proteste diplomatiche croate, rinviata con risibili pretesti e da allora mai più riconvocata nella fiducia che la tradizionale distrazione italiana per questioni di sensibilità nazionale ne cancellasse il ricordo ancor prima di quanto previsto dal fluire del tempo.

Quello che portò alla tragedia delle foibe fu «un odio alimentato dall'ideologia, in questo caso soprattutto dall'ideologia comunista»: con questo giudizio netto Walter Veltroni presenta nella prefazione il libro di Jan Bernas "Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani" (Mursia editore) che raccoglie drammatiche testimonianze di quei fatti.

«La verità - continua Veltroni - è che nessuna costruzione ideologica, di nessun tipo e di nessun colore, può giustificare la violenza, la privazione della libertà la persecuzione e l'uccisione di migliaia di persone. E non c'è niente, nè un se, nè un ma, che possa far dimenticare il modo orribile in cui questo avvenne».

Il libro, scritto da un giornalista italiano di origine polacca, nato a Roma nel 1978, è dedicato alle «storie degli esuli e dei rimasti», a quelle migliaia istriani, fiumani e dalmati scacciati dalle loro case e dai loro paesi: «Un popolo abbandonato da un'Italia matrigna, che dopo oltre sessant'anni ancora fa fatica a riconoscere dignità e onore a migliaia di suoi figli, sacrificati per lavare gli orrori di una guerra sciagurata».

Alla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, migliaia di italiani di Istria, Fiume e Dalmazia si trovano senza alcuna difesa di fronte all'odio etnico-nazionalista del regime di Tito, deciso a jugoslavizzare quei territori. In 350mila fuggono, per essere accolti in Italia tra diffidenza e indifferenza. Altri decidono di rimanere, riscoprendosi giorno dopo giorno stranieri a casa propria.

(fonte Il Messaggero)

gosth
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#214 Messaggio da gosth »

tiffany rayne ha scritto:
gosth ha scritto:
tiffany rayne ha scritto:Beh se semplifichi tutto a livello elementare per portare acqua al tuo mulino certo che l'idea comunista ha prodotto solo morti e tragedie.

Le cose sono molto piu' complesse, l'idea comunista non è nata con Marx e Lenin loro ne sono solamente interpreti. Hanno aggiornato l'idea alle condizioni storiche che vivevano in quel momento.

Non per nulla oggi vengono definiti comunisti quelli che vanno in piazza a contestare questo governo anche se non sanno nemmeno chi era Marx. Gli ideali non moriranno mai, avranno magari altri nomi.

Dunque se tu intendi per apologia del comunismo quello di esaltare le dittature rosse sono d'accordo con te, facciamo pure questa legge.

scusa ma quando sarebbe nata?
Con le prime civiltà umane, ci trovi sempre qualche "comunista".

o bella...su questo forum si impara sempre qualcosa... :wink: :wink: :wink:

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Helmut
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#215 Messaggio da Helmut »

nik978 ha scritto:
Helmut ha scritto:
Caro MiniMe, ( :wink: )

\it/
off topic

no no...sei fuori strada e di parecchio..
:)
Ma và... :o evidentemente tu hai informazioni che io non ho... :wink:
"Innalzare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio."

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wolf.55
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#216 Messaggio da wolf.55 »

http://www.anvgd.it/index.php?option=co ... Itemid=144


Lo zaratino Schilke: eroe sconosciuto o pilota sfortunato? (Aeronautica ago/set 09)
giovedì 05 novembre 2009
di Carlo Cetteo Cipriani

Di Oscar Schilke s'era persa la memoria fin quando il 14 giugno 1998 l'agenzia di stampa ANSA, ripresa da Il Messaggero di Roma il giorno successivo, rilanciava una 'strana' notizia a suo riguardo, proveniente da Tirana in Albania.

Era stato il quotidiano Gazeta Shqiptare a rinverdire il ricordo riferendo che un pilota italiano, appunto Schilke, era stato abbattuto nel 1951 mentre volava sull'Albania. Secondo la ricostruzione del quotidiano il pilota italiano volava con un P38 1 sull'Albania meridionale per una missione di spionaggio nel tentativo di fotografare la nuova base per sommergi­bili che i sovietici stavano costruendo a Pasha Limani, vicino Valona. Abbattuto, sarebbe stato catturato dalle forze armate albanesi ed incarcerato; sembra che se ne siano perse le tracce nel 1960.

La notizia non fu ripresa da altri organi di stampa e morì lì.

Oscar Schilke era nato nel 1917 a Zara e si era poi arruolato nella Regia Ae­ronautica con il corso "Sparviero" dell'Accademia. Dopo le varie vicissitudini della II guerra mondiale, riprende la sua attività di volo passando poi al 3° Stormo.

Il quotidiano albanese Gazeta Shqiptare del 14 giugno 1998 dice:

"Se fosse stato ancora vivo il pilota e colonnello Oscar Schilke oggi conterebbe 91 anni.

Se fosse ancora vivo, come continua a sperare la sua famiglia, il pilota si troverebbe in Albania dove è stato catturato dall'esercito albanese il 13 ottobre del 1951 e imprigionato per anni senza che nessuno avesse notizie di lui. Quella mattina di ottobre, 47 anni fa, Schilke, volava a bordo di un aereo spia 'P38' della flotta aerea italiana, in missione segreta in Albania. L'oggetto della missione era fotografare le basi sottomarine costruite dai russi in Pasha Liman ma i contraerei albanesi 2 lo hanno individuato ed hanno aperto il fuoco fa­cendo cadere l'aereo italiano. Il pilota Schilke fu catturato ma questa storia non fu mai raccontata e rimase per anni un segreto. L'Albania ha sempre taciuto ed anche oggi mantiene il segreto in merito mentre la flotta italiana ha dichiarato che Schilke è morto durante un'esercitazione aerea sul mar Adriatico; ovviamente vi sarebbero stati dei problemi di stato se la flotta italiana avesse dichiarato che la morte era avvenuta durante una missione di spionaggio delle basi militari albanesi.

La verità è stata rivelata solo ora, e la Gazeta Shqiptare è in grado di ricostruire la storia grazie ai familiari del colonnello scomparso.

La mattina del 13 ottobre, l'aereo di fabbricazione americana 'P38'partì dall'aeroporto militare di Grottaglie, in Puglia, dirigendosi per l'Albania. Volava nelle montagne a sud dell'Albania quando fu colpito e catturato. Il pilota era ancora vi­vo e gli agenti della 'Sigurimi3' lo portarono all'ospedale di Korge dove è rimasto ricoverato fino al 1952. nell'ottobre del 1952 Schilke risultava prigioniero nel carcere di Tepelene con l'accusa di spionaggio militare anche se non è stato mai effettuato un processo. La famiglia era in contatto con Gog, aiutante del Re Zog, il quale era rifugiato in Italia e si suppone lavorasse come agente della CIA.

Gog indagò in Albania riuscendo ad avere informazioni sugli spostamenti del prigioniero. Scoprì che tra il 1953 ed il 1954 Schilke era stato rinchiuso nel Mini­stero degli Interni, a Tirana, nella mani della Sigurimi. Da lì uscì vivo in quanto negli ani 1955-56 venne spostato al carcere di Berat, dove lavorava come geometra.

Successivamente di Schilke si occupò il segretario dell'ambasciata italiana in Tirana, Vittorio Rotondaro, il quale venne a sapere che il prigioniero era stato trasferito di nuovo nella sede della Sigurimi a Tirana e che la sua liberazione era prossima. Nel giugno 1960 Schilke si trovava ancora in prigione e da quell'anno nessuno ha avuto più sue notizie; il consigliere Rotondaro fu trasferito a Rabat è nessuno si occupò più di lui.

Qual è il destino del pilota? E' ancora vivo? Perché tanto mistero sulla sua morte?

Il nipote che vive a Parma lancia un appello a chiunque sappia qualcosa sulla morte di suo zio, anche solo per trovare i resti."

A completamento il quotidiano riporta un'intervista al nipote del cap. Schilke, Enrico. Egli dice le cose che so­no riportate nell'articolo, ed in più la notizia di una nota di protesta albanese nel giorno dell'abbattimento 4, aggiungendo che erano stati fatti vari tentativi per liberare il pilota, compresa la disponibilità al pagamento di una ingente somma, trami­te i servizi segreti, ma all'incirca dall'inizio degli anni '60 non si seppe più nulla.

La missione di volo, come risulta dagli atti della commissione d'inchiesta, era decollata dall'Aeroporto di Palese Macchie-Bari alle 8.31 del 13 ottobre 1951 con atterraggio previsto per le 1200. Si trattava di un volo isolato con velivolo F.38 del 3° Stormo, a quota di 20.000 pie­di sul percorso Bari-Foggia-Lecce-Catania-Napoli-Bari, nell'ambito delle esercitazioni preliminari "Centaurus". Le condizioni meteorologiche non erano avverse in quanto si aveva solo su tutta la Calabria copertura totale, fino a 3.000 metri, con mare mosso al largo.

Il volo fu seguito via radio dai goniometri di Amendola (Foggia) e Lecce, la voce del pilota riportata come tranquilla, alle 9.32 sorvolava Lecce. Però alla 9.51, in una delle ultime comunicazioni diceva: "Sono da un quarto d'ora nelle nubi - forse dovrò tornare indietro - qua c'è un inferno". Dopo le 9.55 nessun'altra comunicazione era stata rilevata. Ovviamente iniziarono subito dopo le ricerche con­dotte nello Ionio da aerei dello stesso stormo e del Centro Soccorso - 88° Gruppo idrovolanti basato a Grottaglie. Gli esiti furono negativi, salvo l'avvistamento confuso di un salvagente alle 15,55, da parte di un velivolo C-45. Successive indagini sul posto non porteranno ad altri rinvenimenti. Le ricerche saranno sospe­se alle 10,45 del 15 ottobre, anche per le condizioni meteo che erano peggiorate, nello Ionio.

La stampa parlò poco dell'incidente. Il quotidiano della zona La Gazzetta del Mezzogiorno del 18 ottobre dava la notizia, probabilmente di fonte della Marina Militare, che riferiva delle ricerche effettuate a vuoto dalle unità navali, per cui il pilota si doveva considerare deceduto.

Si dava così avvio alle procedure per la definizione delle cause dell'incidente, secondo le disposizioni allora vigenti, disposte nel supplemento 2 al Foglio d'Ordini del 5 maggio 1950. Fu quindi costituita una commissione composta dal colonnello pilota Nicola Nicolai quale presidente, dal tenente colonnello pilota Aldo Rossi e dal tenente colonnello ingegnere Tommaso Tangari quali membri e dal capitano pilota Vitaliano Limonciello membro e segretario.

La commissione raccolse i dati, le informazioni, le testimonianze e redasse le conclusioni finali contenute in un verbale datato a Bari nel gennaio 1952 che per le questioni più importanti

dice:

" ... Constatato:

a) l'impossibilità di poter precisare la località dell'incidente ma, riportando su carta la presunta rotta seguita dal velivolo in relazione ai rilevamenti ricevuti, solamente il punto in cui è avvenuto l'ultimo collegamento radio;

b) che sia da scartare la caduta dell'aereo su terra non essendo sinora perve­nuta alcuna comunicazione a riguardo;

b 5) che in dipendenza di quanto sopra specificato non è possibile effettuare il prescritto sopraluogo per l'esame dei resti del velivolo;

c) ..

d) che non sia da scartare una avaria al velivolo, che tuttavia, non essendo stata segnalata via radio, avrebbe dovuto verificarsi o in concomitanza con l'inefficienza della radio o pochi istanti dopo;

e) che l'inefficienza della radio, nel caso si fosse verificata molto prima dell'incidente, sia da scartare in quanto il velivolo in questo caso avrebbe quasi certamente e date le condizioni atmosferiche fatto scalo a Crotone o Catania, non continuando una navigazione senza poter usufruire di alcuna assistenza da terra ed in previsione del sorvolo di un lungo tratto di mare... ;

f) che sia poco attendibile l'ipotesi di un suo dirottamento e sconfinamento data la assoluta mancanza di notizie al riguardo;

g) che le avverse condizioni atmosferi­che di cui fa cenno il pilota in una delle sue ultime comunicazioni (09,51 - Sono da un quarto d'ora nelle nubi - Forse dovrò tornare indietro - Qua c'è un inferno) avrebbero dovuto essere circoscritte alla zona e quota di volo, dove probabilmente si è verificato l'incidente in quanto non avevano impedito venti minuti prima, la navigazione di altro velivolo sullo stesso percorso;

h) che la insufficiente attrezzatura dell'F.38 per il volo IFR dovuta alla mancanza dell'antighiaccio non faccia escludere il verificarsi di formazioni di ghiaccio (lo zero termico era intorno ai 3000mt. mentre l'apparecchio navigava a 7000mt.);

i) la non avvenuta richiesta di assi­stenza di emergenza da parte del pilota; Conclude: E' da ritenersi che l'apparecchio sia precipitato quasi istantanea­mente.

Probabile causa della caduta: La causa che ha probabilmente determinato la caduta dell'aereo è, a parere della sottoscritta commissione, da attribuirsi alla perdita di controllo del velivolo dovuta a

1°) errore di manovra nella condotta del volo strumentale;

2°) a probabile improvvisa formazio­ne di ghiaccio;

3°) a malore, provocato: ..."

Nelle Memorie Storiche del 3° Stormo del 4° trimestre del 1951 dell'incidente si dà appena notizia nello specchio 'Consuntivo degli incidenti di volo' dove viene iscritto il velivolo F.39 - MM 4203 per cause non precisate, non rientrato alla base, e dando come disperso il pilota, Schilke, appunto.

Il comandante del 3° Stormo era il ten. col. Pilota Giuseppe D'Agostinis, il comandante del 28° Gruppo era il mag­giore Pietro Garfagnoli (peraltro in licenza in quei giorni, sostituito dal capitano pilota Adriano Merani, comandante della 260a Squadriglia).

L'analisi dei fatti si presta ad alcune considerazioni e valutazioni.

La ricostruzione presentata dalla commissione d'inchiesta è verosimile, anche se lascia riflettere il sub e) della rela­zione in quanto si trattava di un pilota di buona esperienza, avendo già 600 ore di volo di cui 238 col velivolo F38, che in condizioni atmosferiche avverse avrebbe di certo mutato rotta o si sarebbe diretto all'atterraggio su altri aeroporti.

E' ormai accertato che nella situazione strategica dell'epoca si facessero voli di ricognizione sul territorio albanese, sia perché quel governo inviava note di protesta, sia perché confermato in epoca successiva da vari piloti anche in articoli apparsi su vari periodici (*).

Difficile è sapere se il velivolo di Schilke fosse uno di questi e se stesse svolgendo attività di ricognizione fotografica, che era una delle attività svolte dal 3° Stormo (3 missioni per 7ore e 50 minuti nel 4° quadrimestre del 1951), oppure un sempli­ce volo per testare la Difesa Aerea albane­se. Come scritto nella relazione della commissione d'indagine sull'incidente, il volo era preparatorio all'esercitazione 'Centaurus', o 'Centauro' come riportano le Me­morie Storiche precisando che si trattava di una esercitazione con la Difesa Aerea italiana, iniziata il 23 ottobre.

L'ultima comunicazione del pilota registrata dice: "Sono da un quarto d'ora nelle nubi - forse dovrò tornare indietro - qua c'è un inferno". Questa è la versione dei documenti ufficiali, ma se si fosse trattato effettivamente di una missione sul territorio albanese la comunicazioni riportate sui do­cumenti avrebbero potuto esser più o meno censurate. Può sì esser intesa relativamente alle condizioni meteorologiche, ma "un inferno" può anche far pensare che potesse esser sotto attacco da parte della contraerea albanese.

Altra considerazione è che l'articolo fu pubblicato dal quotidiano albanese nei giorni in cui la NATO, fra cui l'Italia, bombardava il Kossovo. Parlare di una vecchia intrusione aerea italiana in Albania poteva esser un avvertimento alle for­ze italiane e della NATO di porre attenzione perché gli Albanesi erano ca­paci di difendersi. Ma la pubblicazione potrebbe esser casuale ed in qualche modo 'spinta' dalla famiglia che cercava an­cora notizie del congiunto.

Contro l'ipotesi del volo sull'Albania c'è il fatto che gli albanesi, all'epoca sotto il duro, e faziosamente comunista, governo di Enver Hoxha, non abbiano sfruttato la questione a scopi di propaganda contro l'Italia e la NATO, aggressori del pacifico ed eroico popolo albanese impe­gnato nella costruzione del socialismo.

Le notizie avute dalla famiglia da parte di rifugiati albanesi in Italia, circa la detenzione del cap. Schilke, potrebbero essere delle invenzioni per carpire denaro e ritagliarsi uno spazio di visibilità.

In sostanza la vicenda non è com­pletamente chiara ed a quasi 60 anni dalla morte non è possibile stabilire se il capitano Oscar Schilke sia uno sfortunato aviatore o un eroe misconosciuto.




(*) In tema di ricognizioni fotografiche con i P-38 sulla Jugoslavia e sull'Albania Aeronautica ha già pubblicato un articolo di Gregory Alegi dal titolo "Lampi sulla Jugoslavia" apparso a pag. 13 del numero 6/1999, articolo nel quale - a pag. 16 - tra gli "altri sconfinamenti", viene ri­cordato proprio quello probabile di Oscar Schilke, rimasto misterioso.


(1) - Il P38 Lightning sviluppato a fine anni 30 per le aviazioni statunitensi sia come bombardiere che ricognitore. Impiegato su tutti i fronti di guerra, fra cui l'Italia, provocando gravi danni. L'Aeronautica Militare italiana ricevette dagli USA 100 aerei P38, assegnati a vari stormi, ma con la sigla F38.


(2) - I radar, i missili, gli aerei, della contraerea? L'articolo non lo dice.


(3) - La famigerata Drejtoria e Sigurimit te Shtetit (direzione della sicurezza di stato), nota comunemente come Sigurimi, fu la polizia segreta albanese durante la dittatura comunista, costituita già nel marzo 1943.


(4) - Della nota di protesta parla il quotidiano di Bari La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 ottobre 1953 (p. 2) riportando la notizia da Londra 13.10 se­condo cui Radio Tirana aveva annunciato che ''sabato scorso l'Albania ha protestato presso il Governo italiano'' per i sorvoli di aerei italiani sul territorio albanese. La protesta quindi era almeno del 7 ottobre 1953. Lo stesso quotidiano il 27.10 (p.2) pubblicava una nota datata Roma 26 ot­tobre: "Respinta dall'Italia una protesta albanese". Le date escludono che si tratti del volo di Schilke. Letterale, è un errore evidente di battitura.
Ultima modifica di wolf.55 il 11/02/2010, 11:02, modificato 1 volta in totale.

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Re: Re:

#217 Messaggio da Helmut »

Drogato_ di_porno ha scritto:sorry helmut, ultimamente faccio fatica a capire i tuoi post. ti chiedo: se uno era borghese (quindi nemico di classe: insegnante, commerciante, imprenditore, funzionario ecc.) ma avesse accettato la cittadinanza jugoslava e fatto ''professione di comunismo'', sarebbe rimasto vivo e vegeto RESTANDO borghese (cioè continuando a fare l'insegnante e il commerciante sotto Tito)? per ''professione di comunismo'' intendi la rinuncia al proprio mestiere?

altrimenti c'è una contraddizione: avrebbero rappresentato un pericolo non in quanto borghesi (cioè nemici di classe) ma in quanto "italiani" (pericolo di irredentismo, e si torna alla radice etnica, non politica)
In effetti ho usato la parole "irredentismo" fuori luogo.

Tito, nel suo progetto di una Jugoslavia egemone nei Balcani e nell'Adriatico, usò l'ideologia comunista per dominare, come tutti gli altri satrapi del '900 sotto l'insegna della falce&martello.

Era a capo di uno stato sostanzialmente totalitar-capitalista, di un capitalismo poco produttivo e inefficente, ma con tutte le caratteristiche del caso: salario, profitto, rendita e classi sociali.

Quindi, chi abbracciava la finta fede comunista, pur imprenditore, commerciante, artigiano, "borghese", restava nell'apparatik jugoslavo.

Voglio ricordare che non ci fu solo l'eccidio delle Foibe e l'esodo istriano-dalmata, ma tante storie dimenticate, sempre in funzione alla costruzione di uno Stato ideologicamente compatto:
-il massacro sistematico dei domobrancj (partigiani anticomunisti vicini agli anglo-americani) sloveni, si parla di 10-12.000 vittime. Perchè già allora volevano una Slovenia indipendente e occidentale.
-l'eliminazione dei cetnici serbi (partigiani fedeli al re, che volevano la restaurazione della monarchia)
-la repressione della minoranza albanese, che voleva ricongiungersi alla madrepatria.


Cinquant'anni dopo, nel fallimento mondiale del progetto comunista, la Storia è andata da un'altra parte. :o
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#218 Messaggio da Drogato_ di_porno »

perdonami helmut, ma ieri sera è andata in onda una superba ficsciòn RAI1 "il cuore nel pozzo" sull'argomento. memorabile interpretazione di leo gullotta (il prete) che non si esprimeva a questi livelli dai tempi di "selvaggi" dei vanzina (1995). so che tu spendi fior di denari all'anno per vedere il cinema di archibugiores, tornatores e salvatores. film che vogliono "istruire" lo spettatore o cambiare il mondo conosciuto, recitati con scarsa professionalità rispetto alle pellicole di steven seagal.

ecco, vorrei sapere se la ficsciòn RAI1 di ieri sera, denunciando crimini comunisti, diventa automaticamente un prodotto eccelso e leo gullotta un parigrado di goerge clooney.
“E' vero che in Russia i bambini mangiavano i comunisti?"
"Magari è il contrario, no?"
"Ecco, mi sembrava strano che c'avessero dei bambini così feroci.”

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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#219 Messaggio da Helmut »

Drogato_ di_porno ha scritto:ecco, vorrei sapere se la ficsciòn RAI1 di ieri sera, denunciando crimini comunisti, diventa automaticamente un prodotto eccelso e leo gullotta un parigrado di goerge clooney.
Non l'ho vista, neppure quando ando' in onda per la prima volta nel 2007, ma, leggendo qua e la' le recensioni e le critiche, sono ben felice di non averlo fatto.

Leo Gullotta (dichiarato votante di Rifondazione e presente in alcuni incontri insieme a Bertinotti nella campagna elettorale del 2008 conclusasi con una trombata di dimensioni colossali per la SX comunista :DDD ) lo preferisco nelle superbe interpretazioni della Signora Leonida al Bagaglino :DDD , oppure nella doppia parte dell'onorevole Sgarbozzi e della di lui sorella in "L'onorevole con l'amante sotto il letto", ove ebbe l'onore di recitare al fianco del PIU' GRANDE ATTORE DI TUTTI I TEMPI. :DDD

http://www.youtube.com/watch?v=9ER0TSf5 ... re=related
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Ortheus
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#220 Messaggio da Ortheus »

Non voglio dimenticare che per tutti gli anni che son stato studente, dalle elementari al liceo, ignoravo l'esistenza di un orrore come questo.
Mai nessun insegnante,mai nessun libro.

Non voglio mai dimenticare .
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wolf.55
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#221 Messaggio da wolf.55 »

Ricordiamo pure questo

http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/201 ... 53-1.50241

Storia. "Così la Polizia civile sparò per uccidere" nel novembre del 1953


Dagli archivi dell'Ufficio Zone di Confine esce un rapporto con i nomi di chi comandò le azioni a fuoco contro i manifestanti per l'italianità. Negli scontri persero la vita sei triestini: Francesco Paglia, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Pierino Addobbati e antonio Zavadil


dopoguerra storia .+- .TRIESTE Riemergono dagli archivi i nomi degli uomini della Polizia civile che il 5 e 6 novembre 1953 spararono e uccisero sei triestini durante gli scontri per il ritorno di Trieste all'Italia. Le vittime furono Francesco Paglia, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Pierino Addobbati e Antonio Zavadil, tutti in seguito insigniti della medaglia d'oro al valor civile. Nell'archivio dell'Ufficio Zone di Confine, l'ente governativo italiano dipendente dalla Presidenza del Consiglio (sottosegretario Andreotti) attivo tra il 1946 e il '54, è conservato un documento anonimo intitolato "Ufficiali inglesi della P.C. che hanno comandato le azioni dei giorni 4, 5 e 6 novembre u.s. a Trieste". È un'informativa inviata al Governo italiano a Roma con molti dettagli sull'azione della Polizia civile, un rapporto con ogni probabilità redatto da un informatore dell'Uzc infiltrato nel Corpo che agiva alle dipendenze del Governo militare alleato. A dispetto del titolo, il documento non si limita a indicare i nomi degli ufficiali inglesi, ma ricostruisce per così dire dall'interno i fatti, individuando le singole responsabilità, sia da parte italiana sia angloamericana, riguardo le vittime civili, in particolare i caduti del 6 novembre. E dall'informativa emerge che gli agenti della Pc spararono per uccidere, circostanza per altro già diffusa dalla stampa locale nei giorni immediatamente successivi agli scontri, assieme ai nomi di alcuni dei responsabili.

Ma il report dell'Uzc aggiunge molti particolari, concentrando l'attenzione su singoli episodi. A fare fuoco, si legge per esempio nell'informativa, furono diversi agenti, ma in particolare «l'agente Carli (ex Kralj)», che «sparò dal terrazzo della Prefettura, e l'agente Armando Holtzer», che in seguito venne destituito «per avere mirato sui singoli». La relazione inizia elencando sommariamente quanto accaduto il 3 novembre, quando «la bandiera italiana issata sul Municipio è stata tolta dal maggiore americano Villanti». Il giorno dopo, 4 novembre, «circa 150 studenti di ritorno da Redipuglia» si ritrovano in piazza dell'Unità per manifestare preceduti «da una bandiera innalzata su un'asta metallica».

Interviene la Polizia civile al comando del sovrintendente, il maggiore britannico F.C. Alworth, che strappa di mano la bandiera a uno studente. Il giorno dopo, 5 novembre, è sempre «il magg. Alworth che comanda il Nucleo mobile in piazza Unità e davanti alla Chiesa di Sant'Antonio Nuovo». Sarà sempre Alworth coadiuvato dall'ispettore capo Leo Donati e - si legge nel documento - «dagli ispettori Morini e Alberti», a comandare «l'azione dentro la Chiesa di Sant'Antonio». Sarà, invece, nel pomeriggio, il maggiore Williams, comandante del 2° Nucleo mobile della zona di Muggia, a «ordinare di aprire il fuoco contro i manifestanti durante il rito della riconsacrazione della chiesa». «Coadiuvano il britannico Williams - si legge sempre nell'informativa - l'ispettore capo Virgilio Travan (normalmente interprete e aiuto del col. Richardson a capo della Polizia) e gli ispettori Gennaro Palumbo e Furlan».

Nel frattempo, recita ancora il documento, «subito dopo la cerimonia religiosa le cariche della Pc in altri punti della città sono effettuate al comando dell'ispettore capo Ferruccio Giorgetti (che poi risulta non essere anti-italiano) che viene ferito in piazza della Borsa e abbandona il campo, e dell'ispettore Eliani (gruppo motociclisti)». Il 6 novembre, continua la nota, già dalle 9 del mattino gruppi di cittadini in piazza dell'Unità chiedono l'esposizione del Tricolore sul Municipio. Comanda la Polizia civile «il maggiore Alworth, e gli ispettori Donati, Marini e Alberti». E sarà Donati poco dopo, sempre stando al rapporto, a ordinare il fuoco dal palazzo della Prefettura sui manifestanti. Dopo le due sparatorie, «la prima delle quali avvenuta un'ora prima del lancio della bomba da parte dei dimostranti», giunge davanti alla prefettura un contingente di truppe americane in pieno assetto di guerra. In quel momento Alworth, Donati e Marini con 15 uomini, pistola in pugno, entrano in Municipio per ammainare il tricolore dal balcone e dalla torretta. «È accertato - scrive l'informatore, - che la Pc oltre che dal marciapiede antistante la Prefettura spara anche dalle finestre del primo piano e dalla terrazza della medesima». A dare gli ordini è ancora Alworth, mentre l'ispettore Alberti autorizza alcuni poliziotti a «sparare dalla terrazza». Prosegue il rapporto: «Alcuni poliziotti hanno mirato i singoli individui che cercavano di ripararsi, colpendoli a morte». Tra i poliziotti «che hanno sparato mirando lungamente vi è il pc Carli (ex Kralj) che sparava dalla terrazza della Prefettura». Altro agente, «destituito per aver mirato ai singoli» è Armando Holtzer. «L'agente Chemello - nota poi l'informatore, - ha distrutto con un colpo di manganello la macchina da presa Incom per non farsi ritrarre in azione contro italiani. La devastazione della sede del Mis (sic) avvenuta il 6 novembre pomeriggio è stata comandata dall'ispettore Gulli».

Ed ecco le "Conclusioni" del report: «Gli ufficiali più dichiaratamente antitaliani furono i due sovrintendenti Alworth e Williams , da parte italiana l'ispettore capo Donati, l'ispettore Alberti e l'ispettore Marini con tutti i sottufficiali e agenti del Nucleo mobile; in minor misura ma pur sempre responsabili: l'ispettore capo Treven (sic) e gli ispettori Palumbo e Furlan con la maggior parte del loro nucleo, da ultimo ancora l'ispettore capo Giorgetti e l'ispettore Eliani dei motociclisti». «Si fa presente - continua il rapporto, - che tolta qualche eccezione sia come sottufficiali e agenti di tutta la rimanente polizia normale, che nei suddetti fatti ha avuto occasione di operare o comunque di essere tenuta come riserva, alcuni si sono comportati in modo encomiabile; fra questi l'ispettore Agazzi e Strassoldo e il sergente Vitozzi». Il rapporto riferisce anche che degli agenti coinvolti negli scontri sette furono ricoverati e 72 medicati al pronto soccorso. Gli incidenti ebbero conseguenze all'interno dello stesso Corpo: sei allievi si allontanarono dalla scuola e non tornarono più, 47 guardie, quasi tutte del Nucleo mobile, diedero le dimissioni immediate. «Anche sei dipendenti diedero le dimissioni, rispettando il mese di preavviso».

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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#222 Messaggio da wolf.55 »

... ma diamo uno sguardo anche qui

http://www.nuovaalabarda.org/

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Helmut
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#223 Messaggio da Helmut »

Perfino la Serracchiani se ne é ricordata: 8)

http://www.serracchiani.eu/2010/02/10/g ... l-ricordo/
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#224 Messaggio da zio »

Ortheus ha scritto:Non voglio dimenticare che per tutti gli anni che son stato studente, dalle elementari al liceo, ignoravo l'esistenza di un orrore come questo.
Mai nessun insegnante,mai nessun libro.

Non voglio mai dimenticare .
grande Ortheus.

devo aggiungere che se da un lato l'arroganza più grossa (DC e PCI) è stata di aver volutamente fatto in modo che tali cose venissero ignorate, dall'altro un errore madornale dell'MSI è stato quello di aver cavalcato le famiglie delle vittime e degli sfollati per poter avere qualche argomento per macchiare il moralismo dei simpatizzanti di Tito.

brutta cosa quando la realtà si distorce.
occorrerebbe più umanità e senso reale della vita.
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Re: [O.T.] 10 Febbraio Giornata del Ricordo

#225 Messaggio da soccorsorosso »

La mia prima casa degli spiriti la trovai cinquant'anni fa a Trieste, a due passi da casa. Per andare a scuola, scendevo a piedi lungo una via di nome Bellosguardo. Un mattino c'era un bel sole e io ero in buon anticipo sui tempi, così mi misi a osservare con attenzione le case intorno. Subito mi accorsi che alla strada mancavano alcuni numeri pari. Fra il 6 e il 12 c'era un vuoto e i segni di una casa abbattuta.

Passai la mattina a scuola con quell'enigma sullo stomaco, e al ritorno chiesi ai miei se ne sapevano qualcosa. “C'era una villa di ebrei, abbandonata con le leggi razziali” dissero. Quelle leggi, avrei saputo più tardi, Mussolini le aveva proclamate a Trieste, la città con la più grande comunità ebraica d'Italia.

C'era una casa, dunque. Perché era stata rasa al suolo? Perché quel vuoto numerico non era stato riempito? Quali fantasmi abitavano il luogo? I passavo e ripassavo in cerca di risposte per via Bellosguardo, dove venivano velocemente costruite nuove villette. Solo anni dopo risolsi l'enigma, quasi per caso. In guerra l'edificio era stato requisito dai torturatori fascisti per i loro interrogatori. Il capo era tale Gaetano Collotti, un tipo distinto che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro. Per non far sentire le urla dei disgraziati – in gran parte sloveni del Carso e altri antifascisti di lingua italiana – faceva sparare intorno musica ad alto volume.

Quando mi dissero che il luogo era chiamato “Villa Triste”, sobbalzai. Ma certo, tutto quadrava. La famosa “Villa Triste” che sembrava far rima con Trieste. In molti mi avevano già fatto quel nome, ma nessuno mi aveva indicato un sito preciso. La casa si era smaterializzata, pochi sapevano veramente dove si trovasse. E io l'avevo avuta per anni sotto il naso. Chi l'aveva fatta abbattere? Perché non era stata posta una lapide? Chi copriva quell'orrore? Tutto indicava la fretta di cancellare la memoria. Capii che a Trieste, con Tito alle porte, l'anticomunismo patriottico aveva oscurato l'antifascismo e la Resistenza. Constatai che gli orrori delle foibe aveva finito per occultare i misfatti di gente come Collotti.

Dei sopravvissuti alle torture nessuno si occupava, salvo ricercatori di nicchia e la comunità slovena. Quell'amnesia mi divenne col tempo insopportabile e un giorno decisi di cercare per conto mio. Villa Triste non c'era più, ma i torturatori nel '44 si erano trasferiti altrove, in una stazione dei Carabinieri poi dismessa negli anni Novanta, in via Cologna al numero 8. L'edificio c'era ancora. Ci andai, tutto era quasi intatto. Le cantine con le feritoie dove non era possibile stare in piedi. Le grate alle finestre. Le porte, gli infissi, gli abbaini della soffitta, il secondo piano quasi intatto. Gente era morta lì dentro, qualcuno si era suicidato buttandosi nel cortile, ma i CC avevano convissuto tranquillamente con i fantasmi, probabilmente ignorandoli.

Una lapide, almeno lì, era stata posta. Molti anni dopo. Non mi bastava, cercavo i sopravvissuti e fu una giornalista della Rai slovena ad aiutarmi, Loredana Gec. Mi fece un nome: Sonia Amf Kanziani, nata il 20 gennaio del 1927 a Smarje presso Trieste, torturata per tre mesi in via Bellosguardo e grande invalida. Le telefonai. Rispose con voce ferma “Venga domani” e io fui subito in ansia per quell'incontro. Temevo di riaprire ferite, immaginavo il confronto con un corpo segnato dal dolore e dal rancore, il fantasma di una donna. L'indomani salii le scale con trepidazione e quando la vidi, lì ad aspettarmi sul pianerottolo dell'ultimo piano, rimasi senza fiato. Appoggiata alla ringhiera c'era una regina, dal portamento eretto di una cinquantenne sana, gli zigomi forti e gli occhi verde-foglia pieni di luce. Tutto in lei diceva una cura meticolosa di sé. L'abito, la collana, l'anello, la pettinatura, lo smalto delle unghie, l'ordine perfetto della casa. Era quella la sua rivincita.

“Non si fidi dell'apparenza”, disse. “Per darle la mano, devo sollevare il braccio destro con la mano sinistra”. Il suo corpo, apparentemente perfetto, era tenuto in piedi da cure assidue, quattro mesi d'ospedale all'anno. Aveva tredici cicatrici nei polmoni e una tubercolosi passata alle ossa. Avevo scolpita davanti l'immagine stessa del Secolo Breve. Sonia viveva sola. Aveva perso il marito da trent'anni. Il padre era stato ucciso dai fascisti negli anni Trenta, con una bottiglia di nafta ficcata in gola. Il fratello era morto combattendo con la Resistenza. La mamma gliel'avevano liquidata i partigiani, sospettosi di una combutta con i fascisti. Parlò, a bassa voce, e il discorso discese come un fiume, senza rancore e senza lacrime, come se riguardasse un'altra persona. Presi appunti senza fare domande.

Le carceri erano le cantine dei gesuiti. Si stava in otto in uno spazio di quattro metri quadrati con un bugliolo maleodorante. La brodaglia del pranzo brulicava di vermi. Sonia venne portata quotidianamente a Villa Triste, dove le furono rotti i piedi, cavate le unghie e chiuse le mani nelle porte. Le vertebre furono lesionate. Il peggio, mi disse, erano le urla altrui, quelle degli uomini soprattutto, quando venivano loro bruciati i testicoli con un ferro rovente. “Mi ustionarono la nuca e i capezzoli con sigarette, e mi sottoposero alla tortura della panca, un tubo che ti riempiva d'acqua e poi una pressione sulla pancia che ti svuotava attraverso naso, bocca e orecchie”.

“Un giorno mi appesero con altre tre donne. Avevamo solo gli alluci che toccavano terra. Guardi, porto ancora ai polsi i segni delle corde. Ci picchiavano e Collotti guardava, impassibile. Diceva: se parli ti aiuteremo. Ma aveva due cani lupo pronti a strapparci la carne. A un tratto mormorai in sloveno: Gesù, a te ti hanno tormentato per tre giorni, io sono qui da tre mesi. Tu ci hai messo tre ore a morire, io muoio ogni giorno... Allora mi percossero ancora più forte, gridando che non dovevo parlare quella lingua schifosa. Furono in molti a vedermi uscire svenuta e piena di sangue dalla stanza. A guerra finita un medico mi visitò e mi chiese come avevo fatto a uscire viva da una simile pena”.

Continuò: “Scappai col ribaltone del 25 luglio '43. Un carceriere lì mi disse: vai, ora o mai più. Fui nascosta da un contadino, che aveva già cinque figli cui badare. Mi salvai così”. Ma la moviola della memoria non si fermava, viaggiò all'indietro fino alla morte del padre, obbligato a bere nafta dai fascisti. “Tornò a casa, ci mise a letto e ci suonò come sempre la ninnananna col violino. Poi crollò a terra con lo stomaco perforato. Morì tre giorni dopo, non aveva ancora trent'anni”. Sorrise: “Chi ti crede se racconti questo? Nessuno... Nemmeno ora che le prove ci sono...”. Chiesi della vecchia casa. Rispose: “E' rimasta viva solo una vite secolare. Tutto il resto è andato”. Tutto, pensai, tranne quei numeri mancanti in via Bellosguardo.
21 agosto 2011 (Paolo Rumiz)

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