zio ha scritto:
se ti presenti ti voto.
Grazie

Peccato che sarebbe un pelino incoerente da parte mia.
Cmq capita a pennello questo articolo di Piombini, pubblicato proprio oggi:
LA GRANDE INDUSTRIA A CACCIA DI RENDITE POLITICHE
di Guglielmo Piombini
In varie occasioni ho ricordato il noto aforisma di Milton Friedman, secondo cui le due categorie di persone maggiormente avverse al libero mercato sono gli intellettuali e gli uomini d’affari: i primi vogliono la libertà per sé (in nome della assoluta libertà di esprimersi contro ogni possibile condizionamento politico, economico e culturale) ma non per gli altri (essendo i principali costruttori di utopie totalitarie e sostenitori di minuziose regolamentazioni delle vite altrui); i secondi vogliono invece la libertà per gli altri (dichiarandosi a parole fautori della libera concorrenza) ma non per se stessi (desiderando dallo Stato eccezioni, privilegi e sussidi a proprio favore).
L’attuale Stato interventista e redistributivo rappresenta infatti un terreno d’azione particolarmente propizio per quegli interessi economico-finanziari che, sfruttando i meccanismi del processo decisionale politico, più che a guadagni sul mercato sono alla costante ricerca di rendite parassitarie. Come hanno messo in evidenza le ricerche della Public Choice, gli effetti di queste attività lobbistiche sono particolarmente nocivi per la società nel suo insieme.
Supponiamo che un industriale riesca a convincere il governo che egli ha diritto ad ottenere un monopolio esclusivo, una tariffa doganale, un’incentivazione, o un sussidio a proprio favore. Questo fatto non solo non crea alcun valore aggiuntivo, ma costituisce una perdita secca per i consumatori o i contribuenti, le cui risorse vengono spostate a forza nelle tasche dell’imprenditore favorito. Non solo: poiché l’aiuto statale può in qualsiasi momento essere tolto dal governo, anche altri operatori economici si impegneranno per ottenere il medesimo privilegio, cercando di scalzare il precedente beneficiario.
Essi quindi, invece di cercare di migliorare la propria produzione, investiranno parecchio denaro, sforzo e tempo in quest’attività di pressione sul governo, mediante tentativi di adulazione, persuasione, se non addirittura di corruzione. Tutto ciò genera un grosso spreco sociale, perché le risorse investite in questa attività di ingraziamento dei pubblici poteri avrebbero potuto essere impiegate ben più proficuamente nella produzione di beni o servizi, mentre nessuna utilità per il pubblico deriva dall’ottenimento di una rendita politica.
E’ importante rilevare che la vastità di questo fenomeno è direttamente proporzionale al grado di interventismo economico di un governo, cioè alle dimensioni del settore pubblico. Ben poche possibilità di ricerca di rendita vi sarebbero in un paese in cui il governo costituzionalmente non disponesse di poteri di regolamentazione dell’economia, e gestisse una quota minuscola del prodotto interno lordo di un paese. Dove lo Stato invece ha la possibilità di disporre di alte percentuali della ricchezza prodotta dalla società l’incentivo a produrre si riduce per tutti, perché diminuisce la remunerazione di chi sa soddisfare efficientemente i propri clienti, mentre diventa più ampia quella di coloro che sanno frequentare i corridoi dei palazzi del potere. In altre parole, un maggior numero di persone si attiva per procurarsi una quota maggiore della ricchezza esistente, invece che per crearne di nuova.
Tuttavia, malgrado questi inconvenienti, lo Stato interventista viene ritenuto, soprattutto a sinistra, maggiormente attento alle necessità dei poveri e dei più deboli. Si tratta di un grave errore, perché i potentati economici hanno molte maggiori possibilità di influire sul processo legislativo rispetto ai gruppi meno dotati di risorse. In tutti gli ambienti sono sempre coloro che meglio vi si adattano che hanno le maggiori possibilità di prosperare.
Ogni società, quali che siano le sue istituzioni, assegna maggiori ricompense ai più adatti per quel tipo di società: se una società premia la produzione, prospereranno gli individui più produttivi; se una società premia l’attività di complessa organizzazione e contrattazione politica vinceranno i più adatti a questo tipo di attività, cioè gli individui più istruiti, con maggiori conoscenza delle leggi, con maggiori agganci e conoscenze nelle alte sfere.
Dall’esistenza di questo gioco politico redistributivo gli individui più deboli della società hanno solo da perderci, perché è molto difficile che vasti gruppi come quelli dei poveri o dei disoccupati riescano ad organizzarsi come lobby, mentre gruppi ristretti che riuniscono grandi imprese e persone facoltose vi riescono con maggiore facilità. Questo tipo di concorrenza per la redistribuzione a proprio vantaggio del reddito nazionale non solo non ha niente di “sociale” o di altruista, ma è di gran lunga più implacabile della concorrenza sul libero mercato, dove nessuno può usare la forza per spogliare altre persone.
Invece di punire la grande impresa che opera con successo sul mercato e vezzeggiare la grande impresa che agisce in collusione con i pubblici poteri, gli uomini politici, e soprattutto quelli di sinistra, dovrebbero rendersi conto che la tutela degli interessi generali e in particolare di quelli più deboli passa per la strada opposta.
Oggi può apparire strano, ma i primi movimenti organizzati dei lavoratori e alcune importanti correnti del socialismo ottocentesco la pensavano esattamente in questo modo.