Blue Movie/Fuck, il Sesso al Cinema Secondo Andy Warhol

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Blue Movie/Fuck, il Sesso al Cinema Secondo Andy Warhol

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Ho sempre voluto fare un film che fosse una semplice scopata e nient’altro, allo stesso modo in cui ‘Eat’ era solo mangiare e ’Sleep’ solo dormire. Quindi nell’ottobre del ’68 girai un film in cui Viva faceva sesso con Louis Waldon. E lo chiamai ’Fuck’ (Andy Warhol)

Nel 1969 la Factory di Andy Warhol aveva sede al numero 33 di Union Square West a Manhattan, New York. Mentre la parte anteriore era destinata ad ‘ufficio commerciale’ e pubbliche relazioni, dal retro dell’edificio si accedeva ad un’area destinata alla proiezione cinematografica. E’ lì che Warhol aveva convocato un ristretto pubblico fatto di amici, cineasti e giornalisti accuratamente selezionati per farli assistere al suo nuovo film, il cui titolo era tutto un programma: ‘Fuck’.
Tra gli invitati c’era anche Wheeler Winston Dixon, all’epoca inviato speciale del magazine Life per tutto ciò che riguardava il cinema underground e alternativo. Dixon non sapeva bene cosa aspettarsi - ‘E’ un film sull’amore, quindi contro la guerra’ era stato il laconico commento del regista. Del resto si trattava pur sempre di un film di Andy Warhol, quindi c’era di che interrogarsi. Arrivato al loft, il giornalista si accomodò nella platea della sala costituita da sedie pieghevoli, e si accorse di avere due illustri vicini di posto: si trattava del regista Michelangelo Antonioni, in predicato di girare il suo manifesto controculturale (ma pienamente rispondente alle attese dell’industria cinematografica) ‘Zabriskie Point’ e Monica Vitti, musa ispiratrice dei titoli di maggior successo del già citato Antonioni.
Buio in sala, prima bobina del film. Sullo schermo ci sono Viva e Louis Woldon, due stelle cosiddette ‘superstar’ della Factory di Andy, buttati su un letto. I due chiacchierano - molti i discorsi sulla guerra in Vietnam - e si coccolano, il tutto in un clima molto intimo, ai limiti del minimale. Tutto qua? Beh del resto Warhol l’aveva detto: un film contro la guerra…
Alla seconda bobina ecco però che le cose cambiano. Pian pianino i due attori si spogliano e, tra una chiacchiera e l’altra, cominciano a far sesso. Andy li ha ripresi affidandosi principalmente alle tanto amate inquadrature fisse dal fondo del letto, in maniera tale che i corpi risultino integralmente visibili seppur avvinghiati. I piani sequenza sono interrotti da occasionali stacchi sui volti, ma lo stile di ripresa di Warhol è chiaro: documentare la scopata in tutta la sua durata con movimenti di macchina nulli o, se proprio necessario, con cambi di posizionamento inavvertibili per non interrompere il ‘flusso di realtà’ catturato. Dopo la lunga scena di sesso, ecco che il film viene dotato di un montaggio più sostenuto: Viva e Louis ritornano ai piccoli rituali quotidiani - mangiare, guardare la tv eccetera - senza allontanarsi da quel set che è il materasso se non verso la fine, quando si alzano per fare una doccia.

Fuck dunque, come da titolo. C’è un fatto, però. Tutta la seconda parte del film è letteralmente color blu, cosa che incuriosisce Dixon - giornalista, si, ma anche pratico di fotografia tanto da accorgersi che, con tutta probabilità, Warhol s’era dimenticato di mettere il filtro apposito per bilanciare l’illuminazione indoor/outdoor della sua Eastman Reversal 7242. Tant’è che dopo un po’, avvicinandosi ad Antonioni, gli aveva chiesto: ‘Ma non credi che qua manchi il filtro giusto?’ E Antonioni, dopo un accurato sguardo allo schermo: ‘Hai ragione ma sai, ad Andy queste cose non interessano…’
Forse il regista originario ferrarese aveva ragione, fatto sta che, a proiezione conclusa e luci riaccese, lo stesso Warhol chiede ad alta voce. ‘Com’è che l’intera seconda bobina del film è blu?’ Al che Dixon prese la parola, spiegando le immagini bluastre con il mancato uso del giusto filtro per le riprese. ‘Oooohhhh ecco - fu l’esclamazione di Warhol - vista la situazione penso che dovremo intitolare il film ‘Blue Movie’. Conclusione arguta che fu accolta nell’ilarità generale: rise anche Antonioni, che notoriamente non era un allegrone (da ricordare infatti che col termine ‘Blue Movie’ si indicavano i film a luci rosse).

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Che ‘Blue Movie aka Fuck’ non sia certamente il miglior film di Warhol sul piano estetico è un dato di fatto. Forse però resta il più importante in termini storici. Poiché è stata la prima pellicola con contenuti espliciti a godere di una significativa programmazione cinematografica negli States e, of course, ad essere prontamente sequestrata.
Andiamo con ordine. Le riprese del film sono ascrivibili all’Ottobre 1968 nell’appartamento di David Bourdon, un critico d’arte fortemente legato all’entourage warholiano. Dopo la proiezione privata alla Factory di cui ho scritto sopra, il film viene presentato nelle sue due ore e tredici minuti di durata all’Elgin Cinema, il 12 Giugno 1969 come un’esclusiva per la rivista Film Culture. Il box pubblicitario dell’evento riportato sul settimanale Village Voice - pubblicazione di rilievo in quel del Greenwich Village - parla del ‘miglior film di Andy Warhol dai tempi di Chelsea Girls!’ (Beh insomma, nda).
Successivamente, va menzionata la proiezione pubblica al Garrick Theatre il 21 Luglio (per scongiurare la censura il titolo originale, ‘Fuck’, viene definitivamente soppresso) seguita da una campagna pubblicitaria ragguardevole, che vedeva il suddetto Village Voice dedicare un’intera pagina a ‘Lonesome Cowboys’ (il gay western di Warhol del 1968), ‘Blue Movie’ e ‘Male Parade’ - rassegna di porno gay a cura di Gerard Malanga, un altro della ‘crew’ di Warhol.
A questo punto entra in scena la polizia, che sequestra tutte le bobine del film, bollato come materiale osceno inadatto alla visione, arrestando altresì lo staff del Garrick Theatre.

Vanno fatte delle precisazioni. ‘Blue Movie’ non è un film porno nell’accezione che attribuiamo oggi a questa parola, appartiene tuttavia con pieno diritto al concetto di ‘pornografia’ come esibizione di atti espliciti in senso più ampio e culturale. Non è banale ricordarlo, perchè pur riferendoci al 1969 esistono dei precedenti audaci che, a differenza del film di Warhol, mascherati sotto l’egida di ‘arte sperimentale’ s’erano già procurati di mostrare genitali e penetrazioni (Questo tuttavia ci porta ad un altro discorso, da affrontare in altra sede). Senza tacere poi dell’importanza storica rivestita dallo svedese ‘I Am Curious’, sorta di mockumentary ante litteram che nel 1967 trattava con piglio sociologico elementi di controcultura non lesinando la rappresentazione dettagliata di situazioni sessuali.
Quello che conta qui è ravvisare che, in poche parole, un film come questo conia sotto tutti gli aspetti l’estetica di ripresa pornografica amatoriale. Forte della sua pressoché totale assenza di montaggio e di un sesso ripreso in maniera essenziale, Warhol esprime al suo meglio il concetto di ripresa come qualcosa di adiacente alla realtà oggettiva, restituita tramite l’occhio della camera in maniera impietosa e anticinematografica. Questo perchè lo shooting warholiano include i tempi morti e tutto quello che per un regista ‘aziendale’ è materiale antiestetico, destinato al macero.
Prendiamo ad esempio i corpi di Viva e Louis e il loro contorcersi ora uno sopra l’altro, ora intrecciando in modo goffo e approssimativo le gambe, ora scopando senza la benché minima cura di ‘darsi nella giusta posizione’ alla camera: tutto questo è anticinema. Se dunque è giusto affermare che ‘quello che [Warhol] ha fatto per Campbell's Soup, l'ha fatto anche per il sesso (…) rimuovendolo dal suo contesto abituale e rivelandolo sia come esperienza che come prodotto culturale’ (Gene Youngblood, ‘Expanded Cinema’), non mi trovano d’accordo quanti riconoscono ‘Blue Movie’ come antesignano e fonte d’ispirazione per la ‘Golden Age’ del porno a venire. Questo per il semplice motivo che, produzione clandestina di loop a parte, se guardiamo alla primigenia cinematografia hard su medio e lungometraggio essa manifesta da subito l’esigenza di un plot e di un montaggio, elementi estranei a larga parte della poetica warholiana. Mi pare più appropriato affermare che la pornografia di Warhol si ferma proprio di fronte alla sala di montaggio, rifiutando procedure quali sceneggiatura, editing e post produzione in quanto facenti parte di un concetto di ‘arte filmica in vendita’ che riguarda inesorabilmente anche il mondo dell’hard ‘ufficiale’ che va formandosi nei primissimi anni 70.

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Alcune pagine del libro 'Blue Movie', in cui Warhol inserì shooting hard veri e propri

Il gioco per cui ‘Blue Movie’ è al contempo ‘film blu’ e ‘film a carattere pornografico’ è espediente non solo etimologico, ma anche concettuale: ci troviamo infatti di fronte ad una pellicola esplicita in cui si fa e si mostra sesso non simulato e, altrettanto esplicitamente, si mescola questo momento intimo, privato, alla discussione politica sulla guerra in Vietnam fatta ante coitum. Come a dire: qua c’è il sesso, là c’è la morte. ‘Non c’è niente di osceno nel sesso…è umano - precisa Paul Morrissey, produttore esecutivo di Warhol, in un articolo del Village datato 7 Agosto 1969 - Non è artificiale come in tanti altri film, solo più vicino alla realtà’. Qui sta la chiave di lettura del film: un sesso ripreso come qualcosa di reale hic et nunc, in working progress. Non ha il garbo della messa in scena ma si dà allo spettatore in tutta la sua imperfezione di ‘accadimento’ (ricordiamo appunto il proposito di Warhol di ‘non riprendere fatti, ma accadimenti’).
‘Poi oltre all’atto sessuale - prosegue Morrissey, motivando il rifiuto di accusa per oscenità a carico del film - gli attori discutono di vari problemi sociali, quali il Vietnam, il sindaco Lindsay (si riferisce a John Lindsay, all’epoca sindaco di New York, nda), lo sciopero della raccolta dei rifiuti’.
Come reazione al sequestro del film dopo appena un mese dalla sua uscita, Andy Warhol pensò bene di stampare un libro che contenesse la trascrizione integrale dei dialoghi tra i due attori, corredati da una serie di fotografie che - stando a quanto letto su warholstars.org e non avendo ancora avuto la possibilità di esaminare il testo - sembrerebbero includere riproduzioni di vere e proprie performance quali un pompino di Viva a Louis e una penetrazione, seppur priva di erezione. Prendendo dunque queste ultime informazioni col beneficio del dubbio, pare ragionevole collocare questo ‘Blue Movie’ nell’ambito di un dittico pornografico che vede il suo primo episodio nel mediometraggio ‘Couch’ girato da Andy nel 1964.

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Couch, La Casualità del Porno

Come sempre, Warhol sceglie per i suoi film dei titoli scarni, minimali e programmatici: ‘Couch’ prevede infatti la sola presenza sul set di un divano, sul quale diverse persone si divertono a scopare in performance quali threesome e - interpretando lo scadente stato della pellicola della versione visionata - una dose assortita di pompini (anche gay) e cunnilingus.
La ripresa è, al solito, frontale: nessun dettaglio, nessuna alterazione del reale, nessuna volontà di indirizzare lo sguardo critico all’osservatore. Esiste solo ciò che si vede, nulla di più vicino o lontano. Siamo di fronte all’estetica del loop, del ‘filmino hard’ in 8 mm, che l’ossessione reiterativa di Warhol trasforma in un mediometraggio di oltre 40 minuti, con tutta la meccanica ripetitiva che quest’esasperazione di minutaggio comporta. Il dogma del piano sequenza come unica via per la duplicazione del reale in quello che - come scrive Adriano Aprà, critico warholiano - è una pellicola che si svolge ‘secondo le regole di ogni buon film pornografico che disdegna i preamboli e le giustificazioni’.
Il fatto che spesso la performance sessuale venga disturbata da ‘interferenze’ di attori che entrano in scena per fumarsi una sigaretta, tentare un dialogo con uno dei performer o addirittura posizionarsi davanti al divano con tanto di motocicletta rende ‘Couch’ una sorta di parodia del genere porno, relegato ad azione casuale, involontariamente secondaria e caratterizzata da una ginnastica anonima a cui nessuno dei passanti sembra far caso.

Ciò detto, ‘Blue Movie’ appare come un superamento dei frammenti di sesso raccolti in ‘Couch’ per abbracciare ‘un’unica lunga seduta sessuale fra un uomo e una donna’ (ancora Aprà nel suo saggio ‘Il cinema di Andy Warhol’) in cui l’effetto di straniamento è generato da un contesto tutt’altro che erotico, tutt’altro che ammiccante, che anzi sembra volerci distrarre tramite l’introduzione di argomenti che nulla hanno a che vedere con lo scopare, cosa che occupa comunque la maggior parte del film. E a ben pensarci il ‘nodo’ di tutto è proprio questo, il banale racconto di un vissuto quotidiano tra due persone in un interno. Ridono, parlano, si coccolano, fanno sesso, guardano svogliatamente la televisione, mangiano, si fanno una doccia, si rivestono. Nulla di osceno, dunque, se non la realtà.

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Porno non Porno

Il critico del New York Times Vincent Canby scrisse in un articolo del 10 Agosto 1969 che il sesso mostrato nel film sembrava aver avuto luogo nella vita reale, nonostante una pronunciata mancanza di passione. Ecco dunque la domanda che probabilmente racchiude tutto il ragionamento riguardante questa pellicola: è il film a generare il sesso o piuttosto quest’ultimo, già in corso d’opera prima del ciak, a ‘subire’ lo spionaggio della macchina da presa che si intromette tacitamente e, da silenzioso voyeur, assapora la scopata che le si offre davanti in tutto il suo noioso svolgimento?
Il produttore esecutivo Paul Morrissey ha rifiutato di precisare se il sesso mostrato fosse simulato o meno, rilasciando comunque nel Times di Los Angeles il 29 Settembre del ‘69 una precisazione che appare significativa riguardo la finalità di ‘Blue Movie’: "L'intero intento del film è contro la titillazione, lo stimolo sessuale. Tutto ciò che vedi dice: ‘Ecco il sesso: non è importante’. Là fuori oggi la gente reclama il sesso come una cosa importante. Beh, ecco Andy [Warhol] che invece dice: "Non lo è. Ve lo mostrerò".
Senza voler tacere di un sano spirito di provocazione alla base del tutto, va ricordato che all’epoca pochi personaggi come Warhol potevano permettersi di criticare l’arte mainstream dall’interno tramite un linguaggio underground, dunque alternativo, nella piena consapevolezza che la sua voce sarebbe stata sempre ascoltata e che la sua produzione, censurata o meno, avrebbe ottenuto attenzione senza apparentemente cercarla. In questo caso specifico, l’artista intende produrre un j’accuse in forma di parodia sulle modalità di messa in scena del sesso nell’universo cinematografico tutto, partendo dal coitus interruptus di Hollywood dove lo spettro dell’erotismo è spesso caricato ai massimi livelli per poi negarne allo spettatore la logica conseguenza, fino ad arrivare al porno, dove la totalità dell’atto sessuale viene venduta con lo stesso spirito di simulazione del piacere. Ed è proprio il concetto del fingere, dell’esasperare l’eccitazione e la lussuria in maniera coatta causata dalle esigenze commerciali Il diktat rifiutato da Warhol, che paradossalmente annulla in ‘Blue Movie’ la godibilità dell’assistere ad una scopata per il terzo incomodo (ovvero il pubblico). Come a dire: il sesso è eccitante per chi lo fa, per colui che guarda resta una cosa come tante altre. Messaggio - se ci pensiamo - pornograficamente scoraggiante, seppure filtrato e ‘spiegato’ allo spettatore tramite gli stessi cliché pornografici: un letto, un uomo, una donna. E l’immancabile occhio della camera, a ricordarci che siamo tutti guardoni anche senza volerlo.

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‘Blue Movie dimostra la finzione dell’hardcore e l’asessualità del sesso’ (Maurizio Porro, Corriere della Sera, 24 Febbraio 1987)

‘Ricordo quel film di Warhol che definire pornografico sarebbe delittuoso benchè altro vi si veda se non un’interminabile scena di sesso in cui lo spettatore, noi spettatori di allora, eravamo annoiati, esattamente come il suo autore pretendeva, dalla estenuante ripetizione dello stesso atto. Non finiva mai.’ (Franco Cordelli, Corriere della Sera, 24 Ottobre 2013)
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