dai maniglia non fare l'ingenuo solo per dare addosso a renzi.
renzi ha tante colpe ma in questo caso
anche volendo non potrebbe fare un cazzo di niente: Regeni è finito dentro un gioco immensamente più grande di lui.
c'è un conflitto interno agli apparati di sicurezza egiziani e una (finta?) rivalità fra polizia e magistratura egiziana
l'Italia non ha nessun margine di manovra dentro un paese straniero. Ritirare l'ambasciatore non servirebbe ad ottenere giustizia. rompere i rapporti diplomatici con l'Egitto e rinunciare ai 5 mld di euro annui di scambi commerciali oltre a danneggiare la nostra economia (cosa che farebbe comodo agli avversari di renzi) influirebbe sulla verità giudiziaria quanto una dichiarazione di verginità di marika fruscio
A parole il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi ha promesso all'Italia «piena luce» sull'uccisione del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni.
Mercoledì 30 marzo, all'indomani della drammatica conferenza stampa della famiglia Regeni a Roma, al Sisi si è spinto fino ad annunciare la creazione di un pool dedicato, «una squadra d'inchiesta» per coordinare le procure coinvolte, fino a ottenere la verità sull'omicidio.
E tuttavia nel rimpasto di governo il generale che si è fatto legittimare il golpe dal voto popolare non ha rimosso il principale indiziato dei depistaggi sul caso: il ministro degli Interni e potente ex capo dell'intelligence Magdy Abdel Ghaffar.
Dai comandi di polizia locali e centrali che gli dipendono si susseguono le manipolazioni per far passare la morte di Regeni, torturato per giorni dopo la scomparsa il 25 gennaio in Egitto, come un «incidente stradale», «un delitto a sfondo omosessuale», «una vendetta per fatti di droga», una «rapina di criminali» finita male.
L'improbabile ricostruzione dei veri documenti del ricercatore 28enne, fatti riapparire accanto a una falsa borsa con dell'hashish, è parsa anche all'occhio meno esperto una grossolana montatura.
Ma tali - come la prassi delle sistematiche torture - sono i metodi impiegati da decenni dall'apparato di sicurezza egiziano di Ghaffar per intimidire, far parlare, eliminare personaggi scomodi.
Ghaffar, inamovibile e trasformista capo della repressione
Dal 1977 e fino alla nomina nel 2015 a ministro da parte di al Sisi, Ghaffar ha ricoperto incarichi di punta nello State security service, la principale agenzia d'intelligence interna, diventandone negli Anni 90 capo dell'antiterrorismo e direttore trasformista durante la Primavera araba.
Da tecnico, il poliziotto addestrato nelle Central Security Forces aveva poi già lavorato per il ministero dell'Interno, dal 2008 al 2011, durante il crepuscolo della lunga era della presidenza di Hosni Mubarak.
Ghaffar viene dallo stesso mondo di al Sisi. Appartiene a una famiglia di numerosi civil servant dell'apparato militare ai vertici dello Stato dagli Anni 80, che le rivolte di Piazza Tahrir volevano scardinare sulla spinta dei moti in Tunisia.
Ma la nascente democrazia si è rivelata una fragile parentesi. Estromesso (anche con l'appoggio popolare) il contestato leader dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi, il generale al Sisi ha reinsediato ai vertici dell'Egitto la classe dirigente figlia dell'era di Mubarak, ex militare e prezioso alleato dell'Occidente e di Israele per la stabilità del Medio Oriente.
Dal 2013 al Sisi è il nuovo Mubarak che ha traghettato la restaurazione, dopo una Primavera araba nella quale i generali non avevano mai fino in fondo deposto il potere.
In un tacito compromesso, l'esercito non sparò sulla folla di piazza Tahrir come fece poi con due anni dopo con i Fratelli musulmani; nel 2011 l'apparato militare sacrificò apparentemente il vecchio faraone, ritirandosi nelle retrovie, ma riservandosi il potere di scrivere la Costituzione, cancellando poi con un colpo di spugna il primo governo eletto dal popolo.
Perché l'intelligence di Mubarak non era mai cambiata: nel 2011 l'inamovibile Ghaffar era vicedirettore e poi direttore dello State security service, ribattezzata Egyptian homeland security con un'operazione di maquillage.
Procura di Sadeq e polizia di Ghaffar distanti: ma si teme il bluff
Gli arresti, le torture e le uccisioni degli oppositori non si sono interrotti nemmeno sotto la presidenza “democratica” di Morsi: con questo gioco di specchi ha a che fare l'Italia che cerca giustizia per la morte di Giulio Regeni.
Nel 2011 Ghaffar definiva la sua agenzia, «figlia legittima della rivoluzione del 25 gennaio, non un clone». Si professava l'uomo delle «riforme», ma per riportare l'ordine, la repressione è diventata più massiccia che sotto Mubarak e Morsi: dai dati attendibili dell'organizzazione per i diritti umani el Nadeem, solo nel 2015 in Egitto sono sparite 464 persone, 1176 i casi di tortura, 500 mortali.
Nel febbraio 2016 otto torturati su 88 sono morti come Regeni, scomparso il 25 gennaio, nell'anniversario della fallita rivoluzione.
A capo della polizia giudiziaria di Giza che ha svolto le indagini preliminari sulla sua morte (la pista dell'«incidente stradale») c'era Khaled Shalaby, uno dei tanti uomini di Ghaffar condannato nel 2003 in Cassazione per una tortura letale e la falsificazione dei verbali.
Pena sospesa e poi graziata per «buona condotta» fino alla promozione nel 2015 in una polizia che appare - ma nell'Egitto mai fidarsi delle aperture - in conflitto con un'ala della magistratura.
Scoperto il corpo, dalla Procura di Giza è subito filtrata la notizia delle «evidenti torture», della «morte lenta» e della «scomparsa del cellulare» di Regeni.
A marzo il fascicolo su Regeni è passato poi dal magistrato capo, Ahmed Naji, al procuratore generale Nabil Ahmed Sadeq, tra i volti più presentabili a disposizione.
Ex poliziotto e giudice d'appello, Sadeq ha lavorato come giudice al Cairo, poi in Cassazione, infine è stato ambiguamente nominato procuratore generale da al Sisi nel 2015, dopo l'uccisione del predecessore in un'autobomba a giugno, vicino al Consolato italiano.
I media egiziani lo indicano un «indipendente lontano dalla politica» e su Regeni Sadeq ha dichiarato di «indagare in tutte le direzioni», accantonando la pista dei rapinatori costruita da Ghaffar e promettendo l'invio all'Italia di tutto il materiale il 5 aprile.
Potrebbe essere un bluff, ma il governo Renzi, primo in Europa a legittimare al Sisi, sembra far leva su Sadeq e sullo scontro interno, prima di aprire una crisi diplomatica: troppi interessi economici e anche politici sono in gioco, per arrivare troppo presto a scontro frontale sulla verità per un ragazzo innocente ucciso da un regime, per convenienza, “buono”.
"Kindly separated by nature and a wide ocean from the exterminating havoc of one quarter of the globe" (Thomas Jefferson)
“Per nostra fortuna la natura ed un vasto oceano ci separano dalle devastazioni sterminatrici di un quarto del globo” (Thomas Jefferson)