Nazi Porno
Inviato: 12/02/2005, 17:58
St'articolo mica sarà preso da Impulse?
L'ombra della cinepresa sulla svastica.
Riflessione sul cinema nazi-porno
di Michele Pernice
L'ombra della macchina da presa si riflette sulla svastica. Succede in uno dei più famigerati titoli (chi non lo conosce, chi?) appartenenti al cosiddetto filone "nazi-porno", La bestia in calore (1977). Questo capolavoro (non è leggermente esagerato?) del trash italiano, diretto da Luigi Batzella con lo pseudonimo di Ivan Kathansky, non soltanto presenta tutti i tratti distintivi del filone ma, considerato l'erroraccio descritto all'inizio della presente riflessione, ne esalta la componente estetica (ci vuole del coraggio a parlare di componente estetica) kitsch-dilettantesca. Protagonista della pellicola è Salvatore Baccaro, leggendario caratterista del cinema italiano di genere. (....)
In La bestia in calore, invece, Baccaro (stavolta Sal Boris) è un uomo bestia creato dagli scienziati del terzo Reich per abusare e pasteggiare con i peli pubici di disgraziate donne ebree (nientepopodimeno!!!). Raccontiamo tutto questo perché nessuno avrebbe mai immaginato che l'ex fioraio Baccaro sarebbe comparso in una sessantina di film (in due dei quali da protagonista) in quindici anni e che il suo volto sarebbe apparso sulla copertina del "Dizionario dei film stracult" di Marco Giusti, vera e propria bibbia dell'inesauribile tentativo di riscoperta dei generi. è un'altra sfumatura tipica del nazi-porno e, in generale, del nostro cinema più oscuro. La povertà di mezzi e intenti non impedisce che un film come La bestia in calore resti nella memoria e - talvolta - nel cuore di qualche indomito cinéphile (a noi resteranno nella memoria le corbellerie che stai scrivendo).
Per quanto attiene ai tratti distintivi del filone, diremo in primis che la dicotomia che sottende all'espressione "nazi-porno" è del tutto fuorviante. "Nazi" sta a indicare che queste minuscole produzioni cinematografiche italiane (una dozzina di titoli, che hanno fatto la loro apparizione nelle sale intorno alla metà degli anni Settanta) sono invariabilmente ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale e che s'incentrano sulle vicende che hanno visto la follia nazionalsocialista al centro della pagina più tragica della storia dell'umanità . L'altro termine, "porno", è usato impropriamente, dal momento che le pellicole prese in esame non presentano nessuna delle caratteristiche tipiche del genere "a luci rosse". Se l'erotismo malsano ricopre un ruolo centrale all'interno di questi film, è anche vero che non si assiste mai alla rappresentazione esplicita del sesso, quand'anche essa venga inizialmente suggerita.
Si potrebbe invece pensare che il termine "porno" sia stato affibbiato a queste produzioni per denunciarne in termini generici l'aspetto "amorale" e quello più "gratuitamente violento", forse considerando il termine "pornografia" nell'accezione straubiana di partecipazione acritica all'immagine "nuda e cruda". Sotto questa luce, risulta evidente come sceneggiatori e registi non prendano alcuna posizione politica o filologica nei confronti degli orrori narrati (ma secondo te che avrebbero dovuto fare oltre ad aver dato vita a questi aborti cinematografici per "cinofili" non "cinephile"?), poiché il fine preliminare è essenzialmente quello di impressionare un pubblico affamato di sensazioni a buon mercato. E' impossibile affrontare tematiche come l'antisemitismo e l'Olocausto senza alcun intento di denuncia, ma film come Le lunghe notti della Gestapo o SS Lager 5 - L'inferno delle donne situano le urla di dolore e la rabbia di chi ha sofferto in una sorta di rappresentazione sobria e quasi "documentaristica" dell'evento storico (si in effetti sono "opere" da Istituto Luce!!!!) Il pietismo e la partecipazione emotiva sono minimamente relegati nello spazio di un titolo di testa o di un titolo di coda; ciò che conta è la cronaca (???) esclusiva e (iper)reale di un massacro.
Ci troviamo dunque di fronte alla maldestra rilettura di tre opere che, a detta di alcuni, possono aver funto da involontari apripista: queste sono Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Salon Kitty (1975) di Tinto Brass e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini (ma c'è anche chi ha incluso il Kapò di Pontecorvo e La caduta degli dei di Visconti, rispettivamente del 1959 e del 1969!). Se il film della Cavani prende in esame il cambio di ruolo che può seguire ad un rapporto tra vittima e carnefice amplificando i moventi psicologici dei suoi protagonisti, il film di Brass è incentrato sulle aberrazioni sessuali alle quali sono costrette alcune prigioniere all'interno di un bordello tedesco. Le poverette, in nome del potere, vengono fatte accoppiare di volta in volta con una manica di storpi, nani, monchi e il solito mostruoso Baccaro! Se il filone nazi-porno sembra seguire pedissequamente le coordinate tracciate da Brass, lo fa soltanto in relazione al coté sessuale; tuttavia non ravvisiamo, rispetto a Salon Kitty, l'ottica tipicamente brassiana della sessualità vista come antidoto alla morte e alla frustrazione degli ufficiali nazisti. Anzi, nel filone nazi-porno la dicotomia eros-thanatos convive ugualmente con il sopruso (non si contano le violenze carnali) e la ricerca della libertà . Non a caso, in varie occasioni le detenute scelgono il compromesso sessuale con l'alto ufficiale per poi ucciderlo crudelmente e guadagnare una via di fuga (accade in La svastica nel ventre di Mario Caiano e in SS Lager 5 - L'inferno delle donne di Sergio Garrone). Per quanto riguarda il capolavoro di Pasolini, è necessario rimandare ad una lettura politica, in cui l'apparente gratuità dei fatti serve piuttosto ad illustrare allegoricamente la pericolosità insita nel potere capitalista, capace di corrompere i giovani con i falsi valori e renderli un mero strumento di propaganda.
L'influenza dei tre film è indiretta, dal momento che l'origine del nazi-porno è da ricercare all'estero. Infatti, in seguito al successo dei film di Brass e Pasolini, nel 1975 la distribuzione italiana decide di far uscire nelle sale una pellicola americana di sette anni prima: Camp 7 Lager femminile di Robert Lee Frost. Pur editato in pieno periodo estivo, il film di Frost gode di un efficace battage pubblicitario e riscuote un successo inaspettato. L'anno precedente era giunto in Italia il primo capitolo della trilogia dedicata all'eroina (!) Ilsa, la crudele kapò che diede la fama alla giunonica attrice Dyanne Thorne. Il film, una produzione canadese diretta da Don Edmonds, è Ilsa, la belva delle SS (1974). A questo film sono seguiti Ilsa, la belva del deserto (1976), ancora diretto da Edmonds, e La tigre del sesso (1979) di Jean LaFleur. Questi film, girati anch'essi con budget irrisori, conferiscono al filone l'identità definitiva, dal momento che trattano di ogni sorta di torture e vessazioni sessuali senza inserire le proprie trame in un pur vago discorso.
La plausibilità della ricostruzione storica costituisce un aspetto marginale (ma non erano dei documentari?) poiché acquista maggior spazio il movente sadico dell'ufficiale tedesco o la pulsione saffica della kapò di turno. Da una parte, seguendo il principio della tragedia (se continua in queste farneticazioni tra un po mette in ballo anche Shackespeare) non altrimenti commentabile, il filone nazi-porno può assumere un impatto se possibile superiore rispetto a tante altre pellicole sull'Olocausto grondanti retorica da ogni grana di celluloide. D'altra parte, tuttavia, questi film narrano di improbabili torture e di esperimenti impossibili (mi verrebbe voglia come biologo effettivamente farne sull'autore...) come se la fantasia, a volte, potesse arrogarsi il diritto di superare la realtà . A parte la gran mole di torture a base di pinze (Le deportate della Sezione Speciale SS, diretto nel 1976 da Rino Di Silvestro, La bestia in calore, SS Lager 5 - L'inferno delle donne), acqua bollente (La bestia in calore), manganelli (Le deportate della Sezione Speciale SS, La svastica nel ventre) aguzzi tirapugni (SS Lager 5 - L'inferno delle donne), trapani (Olocausto parte 2 - I ricordi, i deliri, le vendette, l'ultimo nazi-porno, realizzato nel 1980 da Elo Pannacciò) e castrazioni (Kaput Lager, gli ultimi giorni delle SS, girato nel 1976 da Luigi Batzella), accade per esempio che in KZ9 - Lager di sterminio (1977) di Bruno Mattei, le donne (in questi film vittime designate per eccellenza) vengono colpite da proiettili sperimentali capaci di disciogliere gli organi interni. Nello stesso film, alcune recluse vengono fatte accoppiare con un cadavere, poiché lo scienziato di turno ha scoperto (con successo!) che le stimolazioni sessuali possono far resuscitare i morti. Nel citato SS Lager 5 - L'inferno delle donne i dottori nazisti sperimentano un unguento combustibile sulla gamba di una malcapitata, mentre ne L'ultima orgia del terzo Reich (1976) di Cesare Canevari alcuni ufficiali tedeschi, convinti che il popolo ebraico sia stato creato per sfamare la razza ariana, ricorrono a truci atti di cannibalismo. Nel delirante (fin dal titolo) Lager Ssadis Kastrat Kommandatur (1976), diretto ancora da Garrone, un ufficiale nazista è alla disperata ricerca di un individuo abbastanza virile per estirpargli i testicoli e trapiantarli su di sé, dal momento che i suoi gli erano stati staccati a morsi da una ragazza ebrea durante uno stupro!
L'aspetto kitsch è proprio in questa goffa combinazione di storia (dis)umana e ingenua baracconata, che mostra come tale filone non sia supinamente collocabile in un genere cinematografico particolare. Non si tratta di film bellici né tanto meno storici, dal momento che lo scenario fa da semplice sfondo e niente più. Non si tratta di film dell'orrore, dal momento che l'aspetto grandguignolesco non è il risultato di una minaccia incombente, ma il fine ultimo dell'intero impianto narrativo. Non si tratta di film erotici, perché la sessualità , per quanto depravata, non può convivere con un panorama tanto degenerato (per dare un'idea del tipo di sessualità che si respira in questi film, citeremo Casa privata per le SS, diretto nel 1976 da Mattei, in cui una prostituta del Reich viene fatta accoppiare con un cane, nonché Le lunghe notti della Gestapo, diretto nel 1977 dall'ex giornalista Fabio De Agostini, in cui la prostituta di turno, dopo aver improvvisato un balletto, s'infila una pallina da golf nella vagina). Le scarne trame sono incentrate perlopiù sui tentativi di fuga da parte di deportate ebree, ma dal momento che tutte fungono da pretesto, non è possibile situarle nemmeno nell'ambito dei film avventurosi (se non, al limite, accostarle al gemello sottogenere "women in prison"). Piuttosto è necessario parlare di cinema d'"exploitation", laddove i film di questo filone si crogiolano unicamente nella ricerca forsennata della commerciabilità più bassa. (insomma semplici escrementi d'arte....chiaro no?)
Ciò che disgusta il pubblico dal palato fine e contemporaneamente incanta il trasher più oltranzista è questa messa in scena ruvida ed involontariamente ridicola, spesso maldestra e sempre rigorosamente povera (alcuni film includono lunghe immagini di repertorio, il più delle volte per diluire il minestrone). La finzione cinematografica prende il sopravvento sullo sfondo storico e, se si passa sopra la scelta (dubbia) di affrontare con piglio goliardico un tema come quello dell'Olocausto, ci si affaccia sul cinema puro, quello che gioca, cioè, con la stessa finzione tout-court.
In barba alle frettolose conclusioni (guarda mi son preso del tempo apposta) che si possono trarre, le pellicole nazi-porno sono quanto di più ingenuamente divertente ed involontariamente umoristico il cinema italiano abbia dato, poiché la ricerca del facile effetto aggira la plausibilità del realismo e inaugura un gioco che richiede l'assoluta complicità dello spettatore. Il rapporto dialettico che si instaura tra spettatore ed evento filmico giunge al suo compimento qualora il primo si renda partecipe del secondo seguendo un principio non dissimile da quello che fa scaturire una grassa risata da una brutta barzelletta antisemita: le barzellette antisemite non dovrebbero far ridere, infatti, finché l'umanità non sceglie di dimenticare. Dal canto suo la magia del cinema, quando non vuole che lo spettatore anneghi in una lacrima, può muovere il primo passo verso una salutare catarsi. In questo senso, riteniamo che la scena de La bestia in calore in cui la cinepresa proietta la sua ombra sull'immagine di una svastica può costituire il manifesto di un sottogenere.(o di una sottospecie?)
(27/2/2003)
[img:63f1aeea2c]http://www.thule-italia.com/varie/NEC2.gif[/img:63f1aeea2c]
L'ombra della cinepresa sulla svastica.
Riflessione sul cinema nazi-porno
di Michele Pernice
L'ombra della macchina da presa si riflette sulla svastica. Succede in uno dei più famigerati titoli (chi non lo conosce, chi?) appartenenti al cosiddetto filone "nazi-porno", La bestia in calore (1977). Questo capolavoro (non è leggermente esagerato?) del trash italiano, diretto da Luigi Batzella con lo pseudonimo di Ivan Kathansky, non soltanto presenta tutti i tratti distintivi del filone ma, considerato l'erroraccio descritto all'inizio della presente riflessione, ne esalta la componente estetica (ci vuole del coraggio a parlare di componente estetica) kitsch-dilettantesca. Protagonista della pellicola è Salvatore Baccaro, leggendario caratterista del cinema italiano di genere. (....)
In La bestia in calore, invece, Baccaro (stavolta Sal Boris) è un uomo bestia creato dagli scienziati del terzo Reich per abusare e pasteggiare con i peli pubici di disgraziate donne ebree (nientepopodimeno!!!). Raccontiamo tutto questo perché nessuno avrebbe mai immaginato che l'ex fioraio Baccaro sarebbe comparso in una sessantina di film (in due dei quali da protagonista) in quindici anni e che il suo volto sarebbe apparso sulla copertina del "Dizionario dei film stracult" di Marco Giusti, vera e propria bibbia dell'inesauribile tentativo di riscoperta dei generi. è un'altra sfumatura tipica del nazi-porno e, in generale, del nostro cinema più oscuro. La povertà di mezzi e intenti non impedisce che un film come La bestia in calore resti nella memoria e - talvolta - nel cuore di qualche indomito cinéphile (a noi resteranno nella memoria le corbellerie che stai scrivendo).
Per quanto attiene ai tratti distintivi del filone, diremo in primis che la dicotomia che sottende all'espressione "nazi-porno" è del tutto fuorviante. "Nazi" sta a indicare che queste minuscole produzioni cinematografiche italiane (una dozzina di titoli, che hanno fatto la loro apparizione nelle sale intorno alla metà degli anni Settanta) sono invariabilmente ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale e che s'incentrano sulle vicende che hanno visto la follia nazionalsocialista al centro della pagina più tragica della storia dell'umanità . L'altro termine, "porno", è usato impropriamente, dal momento che le pellicole prese in esame non presentano nessuna delle caratteristiche tipiche del genere "a luci rosse". Se l'erotismo malsano ricopre un ruolo centrale all'interno di questi film, è anche vero che non si assiste mai alla rappresentazione esplicita del sesso, quand'anche essa venga inizialmente suggerita.
Si potrebbe invece pensare che il termine "porno" sia stato affibbiato a queste produzioni per denunciarne in termini generici l'aspetto "amorale" e quello più "gratuitamente violento", forse considerando il termine "pornografia" nell'accezione straubiana di partecipazione acritica all'immagine "nuda e cruda". Sotto questa luce, risulta evidente come sceneggiatori e registi non prendano alcuna posizione politica o filologica nei confronti degli orrori narrati (ma secondo te che avrebbero dovuto fare oltre ad aver dato vita a questi aborti cinematografici per "cinofili" non "cinephile"?), poiché il fine preliminare è essenzialmente quello di impressionare un pubblico affamato di sensazioni a buon mercato. E' impossibile affrontare tematiche come l'antisemitismo e l'Olocausto senza alcun intento di denuncia, ma film come Le lunghe notti della Gestapo o SS Lager 5 - L'inferno delle donne situano le urla di dolore e la rabbia di chi ha sofferto in una sorta di rappresentazione sobria e quasi "documentaristica" dell'evento storico (si in effetti sono "opere" da Istituto Luce!!!!) Il pietismo e la partecipazione emotiva sono minimamente relegati nello spazio di un titolo di testa o di un titolo di coda; ciò che conta è la cronaca (???) esclusiva e (iper)reale di un massacro.
Ci troviamo dunque di fronte alla maldestra rilettura di tre opere che, a detta di alcuni, possono aver funto da involontari apripista: queste sono Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Salon Kitty (1975) di Tinto Brass e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini (ma c'è anche chi ha incluso il Kapò di Pontecorvo e La caduta degli dei di Visconti, rispettivamente del 1959 e del 1969!). Se il film della Cavani prende in esame il cambio di ruolo che può seguire ad un rapporto tra vittima e carnefice amplificando i moventi psicologici dei suoi protagonisti, il film di Brass è incentrato sulle aberrazioni sessuali alle quali sono costrette alcune prigioniere all'interno di un bordello tedesco. Le poverette, in nome del potere, vengono fatte accoppiare di volta in volta con una manica di storpi, nani, monchi e il solito mostruoso Baccaro! Se il filone nazi-porno sembra seguire pedissequamente le coordinate tracciate da Brass, lo fa soltanto in relazione al coté sessuale; tuttavia non ravvisiamo, rispetto a Salon Kitty, l'ottica tipicamente brassiana della sessualità vista come antidoto alla morte e alla frustrazione degli ufficiali nazisti. Anzi, nel filone nazi-porno la dicotomia eros-thanatos convive ugualmente con il sopruso (non si contano le violenze carnali) e la ricerca della libertà . Non a caso, in varie occasioni le detenute scelgono il compromesso sessuale con l'alto ufficiale per poi ucciderlo crudelmente e guadagnare una via di fuga (accade in La svastica nel ventre di Mario Caiano e in SS Lager 5 - L'inferno delle donne di Sergio Garrone). Per quanto riguarda il capolavoro di Pasolini, è necessario rimandare ad una lettura politica, in cui l'apparente gratuità dei fatti serve piuttosto ad illustrare allegoricamente la pericolosità insita nel potere capitalista, capace di corrompere i giovani con i falsi valori e renderli un mero strumento di propaganda.
L'influenza dei tre film è indiretta, dal momento che l'origine del nazi-porno è da ricercare all'estero. Infatti, in seguito al successo dei film di Brass e Pasolini, nel 1975 la distribuzione italiana decide di far uscire nelle sale una pellicola americana di sette anni prima: Camp 7 Lager femminile di Robert Lee Frost. Pur editato in pieno periodo estivo, il film di Frost gode di un efficace battage pubblicitario e riscuote un successo inaspettato. L'anno precedente era giunto in Italia il primo capitolo della trilogia dedicata all'eroina (!) Ilsa, la crudele kapò che diede la fama alla giunonica attrice Dyanne Thorne. Il film, una produzione canadese diretta da Don Edmonds, è Ilsa, la belva delle SS (1974). A questo film sono seguiti Ilsa, la belva del deserto (1976), ancora diretto da Edmonds, e La tigre del sesso (1979) di Jean LaFleur. Questi film, girati anch'essi con budget irrisori, conferiscono al filone l'identità definitiva, dal momento che trattano di ogni sorta di torture e vessazioni sessuali senza inserire le proprie trame in un pur vago discorso.
La plausibilità della ricostruzione storica costituisce un aspetto marginale (ma non erano dei documentari?) poiché acquista maggior spazio il movente sadico dell'ufficiale tedesco o la pulsione saffica della kapò di turno. Da una parte, seguendo il principio della tragedia (se continua in queste farneticazioni tra un po mette in ballo anche Shackespeare) non altrimenti commentabile, il filone nazi-porno può assumere un impatto se possibile superiore rispetto a tante altre pellicole sull'Olocausto grondanti retorica da ogni grana di celluloide. D'altra parte, tuttavia, questi film narrano di improbabili torture e di esperimenti impossibili (mi verrebbe voglia come biologo effettivamente farne sull'autore...) come se la fantasia, a volte, potesse arrogarsi il diritto di superare la realtà . A parte la gran mole di torture a base di pinze (Le deportate della Sezione Speciale SS, diretto nel 1976 da Rino Di Silvestro, La bestia in calore, SS Lager 5 - L'inferno delle donne), acqua bollente (La bestia in calore), manganelli (Le deportate della Sezione Speciale SS, La svastica nel ventre) aguzzi tirapugni (SS Lager 5 - L'inferno delle donne), trapani (Olocausto parte 2 - I ricordi, i deliri, le vendette, l'ultimo nazi-porno, realizzato nel 1980 da Elo Pannacciò) e castrazioni (Kaput Lager, gli ultimi giorni delle SS, girato nel 1976 da Luigi Batzella), accade per esempio che in KZ9 - Lager di sterminio (1977) di Bruno Mattei, le donne (in questi film vittime designate per eccellenza) vengono colpite da proiettili sperimentali capaci di disciogliere gli organi interni. Nello stesso film, alcune recluse vengono fatte accoppiare con un cadavere, poiché lo scienziato di turno ha scoperto (con successo!) che le stimolazioni sessuali possono far resuscitare i morti. Nel citato SS Lager 5 - L'inferno delle donne i dottori nazisti sperimentano un unguento combustibile sulla gamba di una malcapitata, mentre ne L'ultima orgia del terzo Reich (1976) di Cesare Canevari alcuni ufficiali tedeschi, convinti che il popolo ebraico sia stato creato per sfamare la razza ariana, ricorrono a truci atti di cannibalismo. Nel delirante (fin dal titolo) Lager Ssadis Kastrat Kommandatur (1976), diretto ancora da Garrone, un ufficiale nazista è alla disperata ricerca di un individuo abbastanza virile per estirpargli i testicoli e trapiantarli su di sé, dal momento che i suoi gli erano stati staccati a morsi da una ragazza ebrea durante uno stupro!
L'aspetto kitsch è proprio in questa goffa combinazione di storia (dis)umana e ingenua baracconata, che mostra come tale filone non sia supinamente collocabile in un genere cinematografico particolare. Non si tratta di film bellici né tanto meno storici, dal momento che lo scenario fa da semplice sfondo e niente più. Non si tratta di film dell'orrore, dal momento che l'aspetto grandguignolesco non è il risultato di una minaccia incombente, ma il fine ultimo dell'intero impianto narrativo. Non si tratta di film erotici, perché la sessualità , per quanto depravata, non può convivere con un panorama tanto degenerato (per dare un'idea del tipo di sessualità che si respira in questi film, citeremo Casa privata per le SS, diretto nel 1976 da Mattei, in cui una prostituta del Reich viene fatta accoppiare con un cane, nonché Le lunghe notti della Gestapo, diretto nel 1977 dall'ex giornalista Fabio De Agostini, in cui la prostituta di turno, dopo aver improvvisato un balletto, s'infila una pallina da golf nella vagina). Le scarne trame sono incentrate perlopiù sui tentativi di fuga da parte di deportate ebree, ma dal momento che tutte fungono da pretesto, non è possibile situarle nemmeno nell'ambito dei film avventurosi (se non, al limite, accostarle al gemello sottogenere "women in prison"). Piuttosto è necessario parlare di cinema d'"exploitation", laddove i film di questo filone si crogiolano unicamente nella ricerca forsennata della commerciabilità più bassa. (insomma semplici escrementi d'arte....chiaro no?)
Ciò che disgusta il pubblico dal palato fine e contemporaneamente incanta il trasher più oltranzista è questa messa in scena ruvida ed involontariamente ridicola, spesso maldestra e sempre rigorosamente povera (alcuni film includono lunghe immagini di repertorio, il più delle volte per diluire il minestrone). La finzione cinematografica prende il sopravvento sullo sfondo storico e, se si passa sopra la scelta (dubbia) di affrontare con piglio goliardico un tema come quello dell'Olocausto, ci si affaccia sul cinema puro, quello che gioca, cioè, con la stessa finzione tout-court.
In barba alle frettolose conclusioni (guarda mi son preso del tempo apposta) che si possono trarre, le pellicole nazi-porno sono quanto di più ingenuamente divertente ed involontariamente umoristico il cinema italiano abbia dato, poiché la ricerca del facile effetto aggira la plausibilità del realismo e inaugura un gioco che richiede l'assoluta complicità dello spettatore. Il rapporto dialettico che si instaura tra spettatore ed evento filmico giunge al suo compimento qualora il primo si renda partecipe del secondo seguendo un principio non dissimile da quello che fa scaturire una grassa risata da una brutta barzelletta antisemita: le barzellette antisemite non dovrebbero far ridere, infatti, finché l'umanità non sceglie di dimenticare. Dal canto suo la magia del cinema, quando non vuole che lo spettatore anneghi in una lacrima, può muovere il primo passo verso una salutare catarsi. In questo senso, riteniamo che la scena de La bestia in calore in cui la cinepresa proietta la sua ombra sull'immagine di una svastica può costituire il manifesto di un sottogenere.(o di una sottospecie?)
(27/2/2003)
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