Cambiamenti che cambiano - ha titolato Pimpipessa.
Già qui è visibile il nucleo della questione : la bidirezionalità della parola cambio.
Molti di voi hanno parlato del cambio di casa, del trasloco.
Uno degli ultimi capitoli del più noto libro di Michael Ende,
La Storia infinita, s’intitola
La casa che muta e presto si scopre che questa casa, cambiando forma, incide sulla personalità di chi vi abita: mutando muta.
Se riflettiamo attentamente su questo fenomeno, ci accorgiamo che noi cambiamo casa e la casa cambia noi che a nostra volta la cambiamo anche senza sostituirla (arredamento, ristrutturazione) al fine di riceverne un nuovo influsso (di nuovo un cambiamento) …
In questa ottica, la dicotomia mutamenti volontari (voluti) / involontari (subiti) perde moltissimo della importanza che quasi tutti vi annettono, caricandola per giunta di valenze emotive.
In effetti questo problema è secondario. Il dato di certezza è che i mutamenti, temuti o agognati che siano, sono attivi in ogni momento della vita -pur nella salvaguardia del filo identitario a base genetica- e indipendentemente dal fatto che ne siamo consapevoli o meno.
Alcuni sono iscritti nell’ordine naturale, altri molto meno, ma, in ogni caso, quello che conta veramente è il tipo di relazione che riusciamo ad instaurare con essi, perché da quel risultato dipende la nostra realtà.
L’esempio classico è quello dell’uomo, del gatto, dell’uccello e della mosca che vedono lo stesso albero in maniere terribilmente diverse, ricevendo dai loro sensi immagini completamente differenti, eppure ugualmente funzionali a ciascuno di essi. Motivo per cui ciascuno di essi è portato a credere che la propria immagine sia la Realtà, che invece risiede nella specificità della correlazione tra l’immagine e l’albero, la cui realtà, seppure dovesse esistere “
di per se stessa”, rimane sconosciuta.
Questo è l’unico modo razionale per spiegare perché di fronte allo stesso cambiamento possiamo ritrovare innumerevoli reazioni differenti, anche nello stesso individuo, in circostanze diverse (mutate) o in tempi diversi, che, essendo mutati, lo hanno mutato.
Dobbiamo riconoscere che i primi ad aver intuito queste cose sono stati gli orientali tanto cari a Jhonnybuccia. Essi per primi si resero conto che la Realtà, quale ci appare per mezzo dei sensi, era illusoria (concetto di
Maya) e destinata a trasformarsi continuamente(concetto di
Impermanenza) fino a sparire.
L’occidente prese tutt’altra strada ma ha dato anch’esso contributi determinanti per la conoscenza delle trasformazioni.
Per limitarci ad un altro argomento da più parti sollevato -la perdita di persone affettivamente significative- vale la pena ricordare gli studi della scuola analitica e in particolare i lavori di Melanie Klein sulla relazione del lattante con il seno materno e quelli di Wilhelm Reich sui fenomeni di attaccamento e separazione che spostano indietro le lancette dell’indagine, ricollocando (di nuovo come gli orientali) l’inizio dell’esperienza umana al momento del concepimento - la cosiddetta
luminanza di bacino - durante il coito fecondante. L’impianto dell’ovocita fecondato è il primo grande attaccamento, la nascita è la prima grande separazione e via dicendo. Tutta la vita è vista come una sinusoide tra queste due polarità, le cui modalità di elaborazione segnano in genere la tendenza a penalizzare o privilegiare l’una o l’altra modalità nelle relazioni significative.
Accertato dunque che è impossibile non cambiare, resta da dire che i cambiamenti veramente critici (dove
critico ha valenza neutra) sono quelli che ci fanno assumere un nuovo status.
Abbiamo quelli fisiologici -infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità, senilità- ciascuno con i propri codici statutari e quelli parafisiologici o patologici, parimenti normati dalle società. Pochi hanno accennato alla malattia come cambiamento di status estremamente destabilizzante e questo mi ha sorpreso anche se me lo spiego con la giovane età della maggior parte dei forumisti.
Siccome ho fatto riferimento a buccia, mi sento in dovere di manifestargli un dissenso sul suo invito all’astensione dalle emozioni, che, formulato così asetticamente, sa più di stoicismo-epicureismo che di dottrine orientali.
Vidi pochi anni fa in TV quel monaco vietnamita che – si dice - indusse il pentimento nel segretario di stato USA Mc Namara nella fase più dura del conflitto. Ebbene, dopo dolorose vicissitudini (esilio a Parigi da parte del governo comunista del suo paese) gli fu concesso di rientrare in patria. Ad un certo punto l’intervistatore gli pone delle domande sulle guerre da poco intraprese dagli alleati contro Afghanistan e Iraq, alla qual cosa risponde di essere meravigliato negativamente dalla facilità con cui Bush e Blair avevano preso decisioni tanto gravi per interi popoli senza prima interrogare il loro dolore, citando anche i figli “difficili” dei due leader.
Di nuovo una lezione dall’oriente: le emozioni vanno ascoltate perché sono messaggeri per la coscienza razionale. Sintetizzano dati raccolti dall’esterno e dall’interno che l’Io cosciente non ha tempo di analizzare separatamente e li trasmettono in una forma dotata di risonanza affettiva di cui la ragione terrà debito conto.
Anche la giornata appena conclusa, scompaginata dal post di Canella, può essere letta con queste chiavi, ma non credo sia rilevante parlarne adesso.