26/02/2008 - Catanzaro -
- Campagne di informazione superficiali: è proprio la mancanza di una consapevolezza vera, che diffonde l'epidemia. E le campagne di informazione si limitano genericamente a raccomandare l'uso del preservativo nei rapporti sessuali, senza specificare con chiarezza quali sono i comportamenti a rischio.
- Statistiche inattendibili: si pubblicano dati non suffragati da statistiche attendibili, perché in Italia non esiste alcun registro attraverso cui elaborare percentuali sui soggetti affetti da Hiv.
Ne parlano gli esperti
- Alfredo Vallone dirigente medico dell'Unità operativa complessa di Malattie Infettive dell'Annunziata di Cosenza;
- Sandro Vento.il Sandro Vento, primario della stessa unità operativa, considerato tra i maggiori esperti di Aids in Calabria.
Dalla discussione sono emersi aspetti interessanti:
- i soggetti più a rischio non sono più i giovani, ma i quarantenni-sessantenni;
- è la donna a contrarre maggiormente il virus rispetto all'uomo;
- è una malattia che si può curare;
- malgrado spesso si gridi alla scoperta del secolo non ci sono vaccini in grado di sconfiggerla e troppo spesso chi si rivolge al medico è ormai in fase terminale.
L'intervista:
Dottore Vento, quanta attendibilità hanno i test dell'Hiv?
«Sono molto attendibili. Sono anonimi, volontari e gratuiti, introdotti da molti anni in Italia e in Europa. Chi ritiene di essere a rischio contagio può presentarsi in qualsiasi reparto di Malattie infettive, fare il test dell'Hiv e dopo due giorni gli viene consegnato, in busta chiusa, l'esito dell'esame. Però nonostante sia un test offerto in Italia da venti anni, non si è mai proceduto a una verifica di quanti sono risultati positivi o negativi. Abbiamo condotto uno studio nei due centri di Malattie infettive di Cosenza e di Verona, il cui esito è stato pubblicato sull'autorevole rivista di malattie infettive statunitense "Clinical Infectious Diseases "del 15 febbraio e abbiamo constatato che a Cosenza su un totale di 383 persone che hanno effettuato il test, nel periodo che va dal 2002 al 2007, solo una è risultata positiva. A Verona, invece, su 2.223 solo 40 persone sono risultate positive. Nello stesso periodo di tempo si sono presentate nel reparto di Malattie infettive di Cosenza 13 persone con Aids, che non avevano mai fatto il test e a Verona ben 59 che avevano l'Aids e non sapevano di aver contratto l'infezione. Risultati dai quali si evince che il test è stato fatto da persone, che mediamente non hanno rischiato nulla e che non avevano idea dei reali rischi dell'infezione e al contrario chi avrebbe dovuto farlo e non l'ha fatto, si trova ad avere i sintomi dell'Aids».
Perché?
«A mio avviso per varie ragioni. Innanzitutto moltissime persone non hanno ben chiare le modalità di trasmissione del virus. Chi le conosce teme l'esito positivo del test e non possiede informazioni corrette sul fatto che ci si possa curare e anche bene, se si riesce a sapere in tempo di aver contratto l'infezione. Poi c'è la paura del giudizio della gente, e in effetti le discriminazioni sul posto di lavoro e in famiglia sono notevoli. Per queste ragioni poi alla fine la persona "giusta" non fa il test».
Come si trasmette il virus:
«Il contagio per trasfusione di sangue oggi è pressoché impossibile e la trasmissione, per via endovenosa, tra tossicodipendenti con scambi di siringa da anni è crollata. Si possono verificare ancora dei casi, ma sono davvero rari. Da 15 anni in qualche maniera i tossicodipendenti per via endovenosa, hanno continuato a prendere l'epatite C, ma non hanno più contratto l'Hiv. Un fatto spiegabile solo ritenendo che chi non aveva il virus, sapeva comunque del contagio dell'altro (non è chiaro come) e ha smesso di scambiare siringhe con chi aveva l'infezione, diversamente non si potrebbe capire come mai queste persone abbiano continuato a prendere l'epatite C e non Hiv. La via per la quale adesso si contrae il virus è attraverso i rapporti sessuali. Ma vanno fatte delle distinzioni, va sempre considerato qual è il tipo di rapporto con cui si prende più facilmente l'infezione, e su questo le campagne informative sono sempre state imprecise».
Approfondiamo questo aspetto. Qual è il rapporto sessuale maggiormente a rischio Hiv?
«Il rapporto anale, innanzitutto per chi ha un rapporto anale passivo, uomo o donna che sia, e in secondo luogo per chi ha un rapporto anale attivo. I rapporti vaginali sono meno a rischio. La possibilità di acquisire l'infezione da un rapporto vaginale non è elevatissima per una donna che ha un rapporto con un uomo con l'Hiv ed è ancor meno alta per un uomo se ha un rapporto con una donna che ha l'infezione. E' meno facile che un uomo prenda l'infezione da una donna con un rapporto vaginale, perché la quantità di virus che è nello sperma è superiore alla quantità nelle secrezioni vaginali».
La differenza tra le due tipologie di rapporti?
«La mucosa dell'ano e del retto non ha le caratteristiche di resistenza della mucosa vaginale, "ideata" per avere rapporti sessuali e quindi con caratteristiche di più difficile penetrabilità di virus e di agenti patogeni, tipicità che la mucosa anale e rettale non ha. Questo spiega perché nel rapporto anale passivo si trasmetta molto più facilmente l'infezione da Hiv, ma anche l'epatite B. Il rapporto anale di fatto è più traumatico rispetto a quello vaginale, anche per chi ha un ruolo attivo in questo rapporto. Si possono creare micro lesioni a livello del pene e contemporaneamente micro e macro lesioni a livello della mucosa anale e rettale e di fatto alla fine c'è anche un passaggio, sia pur minimo, di sangue. Nel rapporto passivo c'è la possibilità che anche lo sperma di fatto superi più facilmente la mucosa e finisca nel circolo sanguigno. Poi possono entrare in gioco altre infezioni sessualmente trasmissibili. Se i partner sessuali hanno lesioni ai genitali dovute ad altre infezioni come l'herpes o il papilloma, allora di fatto in un rapporto sessuale viene a trasmettersi anche sangue e si viene a creare molta facilità di contagio finanche in un rapporto vaginale.»
I rapporti orali sono a rischio?
«Si sfiora lo zero, nel senso che occorre che ci siano notevoli lesioni in bocca.»
Perché nessuna campagna di informazione ha chiarito mai queste differenze?
«Si dice solo "usate il preservativo" e si sa che all'atto pratico lo usano in pochi. Molti anni fa, venivano in ambulatorio persone convinte che il rapporto anale fosse molto più sicuro di quello vaginale. Nessuna campagna ha voluto mai chiarire e fare alcuna differenza tra rapporti sessuali, ritengo per ragioni morali e moralistiche. E' importante divulgare l'uso del preservativo, così come fanno le campagne di informazione, ma non basta. Bisogna dire chiaramente con quale tipo di rapporto si rischia di meno, visto che di fatto il preservativo lo usano in pochi. Così come si parla poco e non esattamente della prostituzione. In Italia sono stati condotti svariati studi sulle prostitute e sui prostituti travestiti o transessuali. Il risultato venuto fuori è che le prostitute mediamente non hanno l'Hiv, a meno che non siano o siano state tossicodipendenti per via endovenosa (e in questo caso il virus l'hanno contratto per lo scambio di siringhe più che per i rapporti sessuali) oppure che provengano da Paesi ad elevata incidenza di Hiv, mi riferisco alle prostitute africane o dell'Est europeo. Nei prostituti transessuali o travestiti (generalmente sudamericani), invece, la percentuale di positività raggiunge il 40%: la quantità di uomini ritenuti eterosessuali che sono sposati o fidanzati ed hanno rapporti sessuali con prostituti travestiti è enorme e spesso, tra l'altro, richiedono rapporti passivi».
L'Hiv/Aids si trasmette solo attraverso il sangue?
«No, anche con lo sperma».
Perché non si trasmette tramite saliva?
«La mucosa orale è resistente, e nella saliva ci sono una serie di sostanze direttamente anti virali».
Non è strano, di solito il virus per antonomasia non si trasmette anche tramite saliva?
«Beh no, diciamo per esempio che l'epatite B e C non si trasmettono con la saliva e in pratica nemmeno l'Hiv».
Le statistiche parlano di 40 milioni di persone colpite dal virus nel mondo e l'Hiv ne contagia 4 milioni ogni anno...
«Dati poco attendibili in tutto il mondo. Una delle cose più strane, successe in occasione della giornata mondiale dell'Aids, lo scorso primo dicembre, è che in base alle statistiche stilate da una serie di Enti internazionali ci sarebbero state 7 milioni di infezioni in meno nel mondo. Sarebbero scese in un anno da 40 milioni a 33 milioni. In realtà sono stime sostanzialmente inattendibili. Una delle problematiche su cui si discute negli Stati Uniti è di introdurre l'obbligo del test a chiunque si presenti in ospedale, a meno che non dichiari apertamente di non volerlo fare. E' un modo per stabilire quanti hanno l'infezione. Ma in Europa dove si fanno sofismi continui si è già detto che questo elenco non si può fare».
Senza dati diventa difficile operare una pianificazione e quindi viene meno anche la possibilità di fare una seria prevenzione...
«In Italia nessuno sa quante persone hanno l'Hiv. Non esiste un registro nazionale, tranne quello dei malati di Aids. Nel nostro Paese le malattie infettive devono essere sottoposte a denuncia obbligatoria, anche se spesso la denuncia non viene fatta (ecco perché le statistiche non sono mai molto attendibili). Il medico a conoscenza di un caso di malattia infettiva, dovrebbe compilare un modulo, mandarlo all'Asl, questa lo manda alla Regione e poi al Ministero e si dovrebbe sapere quanti casi ad esempio di morbillo ci sono stati in un anno e così via per le meningiti, rosolia, varicella, eccetera. Per quanto riguarda l'Hiv, è stata vietata la denuncia dell'infezione e si è stabilito che la comunicazione ad Enti superiori dovesse essere fatta solo nel caso di Aids conclamata. Nel nostro Paese, all'Istituto Superiore di Sanità , da oltre un ventennio esiste un registro Aids, da cui in maniera sufficientemente attendibile si evince che finora ci sono stati 60 mila casi di Aids e di questi 40 mila persone sono morte e 20 mila al momento vive. Ma nessuno può sapere quante persone che hanno fatto il test sono risultate positive. Quando si dice che in Italia ci sono 130 mila sieropositivi, bisogna sapere che non c'è un dato chiaro in base a cui sostenere queste cifre, perché non è prevista nemmeno la denuncia».
Secondo lei perché?
«Si è detto che questa è una malattia così speciale, così diversa dalle altre, che così dicendo la si è reso sempre più diversa al punto tale che si è preferito non dire niente di nessuno, nemmeno in forma criptata».
L'unico strumento di prevenzione contro l'Hiv è il preservativo?
«Si, usato correttamente in tutti i rapporti sessuali, e da utilizzare con uno spessore più consistente nel caso di rapporto anale. Ma secondo me viene usato non più che in un rapporto su dieci».
Perché questa resistenza nell'usare il preservativo?
«Perché l'idea è che si fa l'amore peggio. Ci sono persone che vanno con prostitute e prostituti e sono disposte a pagare di più per non usare il preservativo».
Qual è il messaggio corretto che le campagne di informazione dovrebbero lanciare?
«Smetterla di dire "astenetevi dai rapporti sessuali", intendendo con questa definizione il solo rapporto vaginale. Va spiegata la percentuale di rischio nei diversi rapporti sessuali, e dire che bisogna usare il preservativo non solo con gli sconosciuti. Tutti possono avere rapporti al di là del matrimonio o del fidanzamento e non si può essere tranquilli nemmeno con il partner abituale. Molte donne hanno contratto l'infezione anche dai partner abituali. Il preservativo va usato sempre. Va detto cosa si può fare contro l'infezione, spiegando che non è mortale come una volta e quindi l'atteggiamento di tutti dovrebbe essere diverso. E' chiaro che fino a quando già nelle scuole medie si inizia a prendere in giro i ragazzi, a chiamarli omosessuali per deriderli, l'Hiv si diffonde facilmente. Bisogna che si faccia tutto il possibile affinché se una persona è omosessuale, maschio o donna che sia, venga rispettata. Ognuno deve poter esprime le proprie preferenze sessuali liberamente. La paura del contagio è forte, ma è assurdo avere timori ingiustificati: la gente deve convincersi che stringere la mano o relazionarsi con un malato di Aids non determina la trasmissione del virus. Sono problemi che andrebbero seriamente affrontati. Bisognerebbe avere il coraggio di dire le cose come sono: i rapporti anali non protetti sono più a rischio, per cui chi ha rapporti omosessuali maschili o rapporti anali prende e trasmette più facilmente l'Hiv. L'infezione, in effetti, è in aumento anche tra gli omosessuali, mentre, ad esempio, tra le lesbiche c'è un solo caso segnalato al mondo di contagio da Hiv».
Quanto è mortale questo virus?
«Se una persona riesce a sapere sufficientemente in tempo di aver contratto l'infezione e prende provvedimenti in termini di farmaci e stile di vita ha una buona probabilità di evitare l'Aids».
A che punto è la ricerca?
«L'unica ricerca che non ha dato sostanziali risultati è quella del vaccino. E qui c'è una stranezza da sottolineare. L'idea di vaccino generalmente è legata alla prevenzione di qualcosa. Esempio: faccio il vaccino contro il morbillo e non lo prendo. Non vado a fare il vaccino per ottenere una guarigione dal morbillo. Nel caso di infezione da Hiv, invece, fin dall'inizio di questa storia del vaccino si è data l'impressione e si è detto anche a chiare lettere, che il vaccino fosse curiosamente terapeutico. Quindi che non solo e non tanto prevenisse l'infezione in chi non l'aveva ancora presa, ma che addirittura curasse l'infezione in chi ce l'aveva. Ecco perché il vaccino è stato atteso come una manna dai sieropositivi, oltre che da chi non aveva l'infezione e intendeva farlo per immunizzarsi. Una strana teoria, che non trova riscontro in nessuna malattia infettiva ad eccezione della rabbia. In realtà vaccini se ne sono provati tantissimi, al momento non ne esiste uno che funzioni e non se ne vedono di efficaci all'orizzonte, anche se chi li produce dichiara che quel vaccino avrà effetti notevoli. Per come è fatto il virus è un'impresa disperata tentare di produrre un vaccino. E' un virus talmente variabile, muta con una tale facilità e crea un tale caos nel sistema immunitario della persona che ha l'infezione, che mancano proprio le basi per capire cosa cercare di bloccare».
Anche secondo lei è impossibile creare un vaccino che funzioni?
«Di recente uno dei più grossi studiosi della materia, statunitense, ha detto che per lui il vaccino non ci sarà mai e secondo me nemmeno.»
Quanto business c'è dietro l'Aids?
«Parecchio. C'è da dire che le industrie farmaceutiche, produttori di una grande quantità di farmaci obiettivamente hanno raggiunto notevoli risultati. Attualmente ci sono una trentina di farmaci che si possono usare contro l'infezione e che in parecchi pazienti hanno cambiato quello che sarebbe stato il decorso della malattia. Da un lato si attacca sempre l'industria farmaceutica per gli elevati costi, ed effettivamente i prezzi sono enormi, però bisogna anche dire che se non ci fossero stati i farmaci, saremmo rimasti a 20 anni fa, quando di Aids si moriva sempre».
Ci conferma l'esistenza di un'immunità naturale insita in alcuni soggetti?
«Il virus ha bisogno di una serie di recettori per riuscire ad entrare nelle cellule del sistema immunitario. Alcuni soggetti, privi di questi recettori, non sono infettati dal virus. Inoltre, esiste una percentuale di soggetti dall'1 al 3% sul totale delle persone che prendono l'infezione, in cui l'Aids con ogni probabilità non si verificherà mai.».
E' possibile studiare un vaccino lavorando sulla reattività dell'organismo di queste persone "più forti" al virus?
«Sono casi studiati da 20 anni, ma gli studi non hanno portato a risultati concreti. A Cosenza seguiamo una persona che ha preso l'infezione almeno 13 anni fa, però il virus si moltiplica poco o niente, ed il suo sistema immunitario non ne soffre quasi affatto.»
Si conosce tutto di questo virus?
«Si conosce parecchio, ma le reazioni del sistema immunitario sono come sempre più difficili da conoscere del virus stesso. L'immunologia nonostante i progressi e la quantità di laboratori che se ne occupano è una scienza difficile. Quasi tutti i laboratori di immunologia si occupano del topo, non dell'uomo».
E' stato isolato il virus dell'Hiv?
«E' sicuramente un virus strano e particolare, ma esiste ed è questo virus a provocare l'Aids, lo dimostra l'evidenza di venticinque anni. Se per isolato si intende che uno ha un agente trasmissibile e lo passa da una cellula all'altra, da un individuo all'altro la risposta è si. Se per isolato si intende aver visto al microscopio elettronico con estrema precisione come è fatto il virus, la risposta è no.».
Quali difficoltà incontrano i malati di Aids?
«Ne incontrano tantissime. Il problema è che chi contrae il virus si sente diverso dagli altri. Ha paura che la gente lo venga a sapere, ed ha il timore che nessuno voglia più avere rapporti sessuali con lui o con lei».
Un giudizio della gente che rischia di ghettizzare il malato di Aids...
«Mediamente si. La gente incomincia a chiedersi come è avvenuta la trasmissione, se è un omosessuale, se è stato con prostitute e iniziano i giudizi morali negativi».
Dottore Vallone, a Cosenza quanti sono i ricoverati in day hospital per infezione da Hiv?
«Ne seguiamo 150. Continuano ad esserci persone che l'hanno contratta con lo scambio di siringhe, ma le nuove infezioni avvengono per contagio per via sessuale».
Come stanno?
«Quelli che seguiamo da molto tempo, abbastanza bene rispetto a 15 anni fa, i nuovi farmaci consentono una cura efficace. Il problema è per chi scopre tardivamente di averla, perché non ha fatto il test, allora diventa difficile bloccare la progressione della malattia, ma quando si riesce per tempo c'è la possibilità di stabilizzare la progressione».
I suoi pazienti dottor Vallone a volte pensano che sarebbe bastato così poco, un semplice preservativo per non contrarre il virus? Vorrebbero poter ritornare indietro e cambiare la storia?
«Sì lo pensano. Avrebbero voluto».
Dottore Vallone cosa prova un medico nel dover dire al proprio pazienze lei ha l'Hiv?
«Fino a 10 anni fa era difficile dirlo, perché la possibilità di poter rallentare la progressione era minima, oggi la differenza è notevole. Abbiamo la possibilità di aggiungere oltre a "Lei ha l'Hiv", anche "si può curare e bene", garantendo condizioni di vita migliori».
Non sentono su di loro una sentenza di morte?
«La paura della morte è relativa. Hanno paura di stare male, degli effetti collaterali delle medicine, del fastidio di dover fare terapia per tutta la vita, hanno la grande paura che qualcuno possa scoprire la condizione di sieropositività e di essere discriminati, e di fronte a questo non abbiamo strumenti migliori rispetto al passato».
Quali sono i disturbi collaterali della terapia?
«Alcuni sono solo transitori e sorgono all'inizio della terapia: disturbi gastro intestinali, dolori addominali. Altri subentrano in un secondo momento e possono dare alterazioni della morfologia corporea, una riduzione dei grassi, disturbi del sonno e di natura neurologica. Ma i farmaci di oggi sono molto meno tossici e sono tanti, circa una trentina, con la possibilità di sostituzione se un farmaco non è ben tollerato».
Ci sono persone anche con Aids conclamata?
«Sì, ma anche in questi casi con le attuali terapie è possibile rallentare la malattia ed evitare il peggio se seguono con regolarità le terapie, sempre che non siano giunti troppo tardi. Abbiamo la fortuna di poter curare adeguatamente queste persone attraverso l'utilizzazione di sistemi diagnostici moderni, gli stessi che si utilizzano nei principali centri clinici italiani e in Europa e abbiamo la possibilità di accesso a tutti i farmaci esistenti in commercio. Partecipiamo, inoltre, a sperimentazioni internazionali su nuovi farmaci e per quanto riguarda questa malattia non è necessario programmare viaggi all'estero o fare viaggi della speranza».
E bambini?
Rispondono i dottori Vento e Vallone: «Noi ne seguiamo a Cosenza 4 affetti da Hiv. Un'anomalia riscontrata è quella di infezioni trasmesse dalla donna al bambino durante la gravidanza, il che oggi non dovrebbe assolutamente accadere. Le donne in gravidanza dovrebbero sottoporsi al test Hiv. La conoscenza di sieropositività della donna dà la possibilità di prevenire con farmaci la trasmissione del virus al bambino durante il parto o subito dopo la nascita attraverso l'allattamento. Avere oggi un'infezione pediatrica è grave, significa che non è stato eseguito il test. E' da raccomandare a tutti i medici e i ginecologi che seguono le donne in gravidanza di eseguire il test e di farlo ripetere più volte nel corso della gravidanza, anche nell'imminenza del parto, in modo tale da far prendere alla donna sieropositiva farmaci in gravidanza e ridurre di molto la quantità del virus. Poi i farmaci verranno dati anche al bambino appena nato in maniera da ridurre quasi a zero il rischio di trasmissione».
Dottore Vento è un caso solo cosentino o frequente un po' ovunque?
«In Italia negli ultimi dieci anni possiamo dire che il fenomeno è scomparso, tutte le donne in gravidanza fanno il test. Un fatto strano, quello che si verifica a Cosenza, perché i ginecologi dovrebbero includere il test Hiv tra quelli di screening in gravidanza».
Per quanto riguarda gli extracomunitari qual è la situazione?
«A Cosenza, seguiamo un certo numero di extracomunitari, dell'Est europeo e dell'Africa al di sotto del Sahara, ma molti di più sono quelli che verosimilmente sono infetti e non lo sanno perché non hanno sintomi e non hanno mai fatto il test. E' bene che chi proviene da quei Paesi si sottoponga al test: è anonimo, gratuito anche per loro e, qualora avessero l'infezione, verrebbero curati come tutti gli altri, con medicine gratuite».
Qual è l'età media di chi contrae il virus?
«Adesso hanno più di trenta anni e molti che arrivano ex novo con l'infezione ne hanno 40, 50, 60. Un signore a Cosenza ha 70 anni e solo da due anni ha scoperto di avere il virus».
Adulti incoscienti?
«Adulti che non hanno idea che ci sia ancora l'Hiv in giro».
Un'ultima domanda dottore Vento, se dovesse lanciare un messaggio ai malati di Hiv/Aids cosa direbbe?
«Organizzatevi in associazioni e fate sentire la vostra voce. I pazienti hanno le loro ragioni per occultare il loro status e posso capirlo, ma se continueranno a nasconderlo non avranno mai i diritti degli altri malati cronici. Per questo devono avere il coraggio di esporsi. Hanno diritto di essere trattati come gli altri e la loro malattia deve essere considerata da tutti come quella di tutti gli altri malati cronici, senza giudizi morali né discriminazioni.»
Fonte:
www.ildomanionline.it