Torino: Einaudi. 2007 [IMG] Libro importante e impegnativo, come si può intuire dalla mole (956 pagine) e dalla bella copertina che riproduce un'opera di Lucio Fontana. Libro anche discusso e indigesto, che non si può definire bello, anche se la densità della scrittura è del tutto funzionale alla narrazione. A me è piaciuto molto e ne consiglio vivamente la lettura, anche se richiede coraggio tanto per l'asprezza dei temi sia per le asperità stilistiche. Anche la recensione sarà lunga, e vi prego di avere pazienza. Cominciamo con il riassunto che ne fa lo stesso editore. Nato in Alsazia da padre tedesco e madre francese, Maximilien Aue dirige sotto falso nome una fabbrica di merletti nel nord della Francia. Svolge bene il suo lavoro, è un uomo preciso ed efficiente. Preciso ed efficiente, del resto, lo era stato anche negli anni del nazismo, quando fra il 1937 e il 1945, aveva fatto carriera nelle SS in Germania. Pur essendo un nazionalsocialista convinto, il giovane e brillante giurista era entrato per caso nel corpo, punta di diamante del Reich hitleriano: fermato dalla polizia dopo un incontro omosessuale, aveva accettato di arruolarsi per evitare la denuncia, grazie anche all'intercessione di Thomas Hauser, un giovane ufficiale che in seguito sarà sempre al suo fianco nei momenti decisivi. Nel 1941 Max è sul fronte orientale, dove nell'ambito delle Einsatzgruppen dà il suo contributo al genocidio di ebrei, zingari e comunisti. Trasferito nel Caucaso e poi nella Stalingrado accerchiata dall'Armata rossa, sopravvive miracolosamente a una grave ferita alla testa. Durante la convalescenza ristabilisce per la prima volta dopo molti anni i contatti con la madre che vive in Costa Azzurra con il secondo marito, un uomo d'affari francese. A lei attribuisce, con odio feroce, sia la scomparsa del padre, sia il distacco da Una, la sorella gemella, alla quale sin dall'infanzia è legato da un mai risolto rapporto incestuoso(hanno fatto assieme 2 figli). I fatti sanguinosi legati a questo soggiorno in Costa Azzurra rimangono anche per lui avvolti in una fitta nebbia. Dopo il rientro in Germania, lavora a stretto contatto con Himmler, con Speer, con Eichmann, con tutta la gerarchia nazionalsocialista, cercando di innalzare la produttività dei detenuti nei campi di concentramento. Per la Germania tuttavia, la guerra ormai è persa, la Wehrmacht arretra su tutti i fronti: nel corso di una licenza in Pomerania nella villa della sorella, Max resta intrappolato dietro le linee nemiche. Thomas lo salva anche in questa occasione e insieme raggiungono la capitale del Reich, devastata dai bombardamenti alleati. Qui, al crepuscolo del nazismo, gli viene in aiuto il suo bilinguismo: assumendo l'identità di un francese deportato in Germania, riesce a fuggire. Grande affresco epico e tragico, non romanzo storico, ma storia assoluta in cui sembrano condensarsi i temi di tutta la letteratura occidentale, dall'Orestea di Eschilo a Vita e destino di Vassilij Grossman, Le Benevole ci fa rivivere gli orrori della Seconda guerra mondiale dal punto di vista terribile e ripugnante dei carnefici. Trascinato dalla corrente della Storia e inseguito da fantasmi che, come le furie «benevole» dei Greci, le Eumenidi, cercano vendetta, Maximilien Aue è parte di noi, la parte più nera. E forse l'impresa e lo scandalo di questo grande romanzo, come ha scritto lo storico Pierre Nora, sono proprio quelli di «ricondurre all'umano l'inumano totale». Poi vorrei suggerirvi due recensioni d'altri che ho trovato pertinenti, quella di Wu Ming 1 comparsa su Carmilla e su L'Unità (Nessuno è immune dal diventare nazista) e quella di Emanuele Trevi comparsa su il manifesto del 31 ottobre 2007 (Monologo d'un pazzo all'ombra delle Furie). Poiché il manifesto non mi consente di ripubblicare l'articolo (vergogna! ma questa è un'altra storia...), riporto alcuni passi che mi sembrano significativi: Poiché non c'è alcuna differenza ontologica tra le Furie o Erinni e le Eumenidi, le Benevole, non bisogna lasciarsi ingannare: tra le pagine del romanzo le Eumenidi, divinità sorridenti e dispensatrici di pace, non si sostituiscono alle Furie che tormentano Oreste dal momento in cui ha sparso il sangue di sua madre, perché ciò che cambia è solo l'atteggiamento che queste divinità - antichissime, pre-olimpiche, figlie della Notte, legate al regno dei morti e al mondo sotterraneo - assumono nei confronti dei mortali e delle loro colpe. Perciò, tutto il discorso di Maximilien, nonostante la sua programmatica freddezza e la macabra ironia che volentieri si concede, è da intendersi come pronunciato all'ombra delle Furie, inchiodato al loro tormento. [...] il nodo decisivo del suo destino consiste in un paradosso: convinto sostenitore delle teorie razziali naziste, Maximilien è un sangue misto, tedesco per parte di padre ma francese di madre (glielo farà notare, con un pizzico di disapprovazione, Himmler in persona, uno dei tanti sommi gradi della gerarchia del Reich che entrano in veste di personaggi nel libro di Littell). Dunque la lingua madre del futuro matricida non è il tedesco ma il francese, ed è appunto in francese che Littell ha concepito e realizzato la confessione del suo personaggio a noi «fratelli umani». Di tutti gli elementi agghiaccianti contenuti nel libro, il francese usato da Maximilien non è certo il meno perturbante. Al tedesco del padre perduto il testo riserva solo una parte ben delimitata, quella del lessico parlato dalla gerarchia nazista e usato per nominare le tecniche dello sterminio di massa, a sigillo di una unicità che è anche intraducibilità . La scelta linguistica dello scrittore (americano di origine, nato nel 1967 a New York e cresciuto in Francia) funziona come una immensa figura retorica, una specie di effetto teatrale capace di conferire al discorso una ulteriore connotazione macabra e visionaria. [...) Miracolosamente sopravvissuto al proiettile che gli ha trapassato la testa da parte a parte, Maximilien interpreta ben presto quel buco che gli è rimasto sulla fronte come un terzo occhio, la chance di una vista ulteriore - forse assimilabile a quella che Leo Sestov, in un saggio famoso su Dostoevskij, attribuiva al passaggio dell'angelo della morte. Maximilien definisce a più riprese «pineale» questa seconda vista, e conviene approfondirne il significato per non farsi sfuggire la metafora rivelatrice che nasconde. L'occhio pineale, in effetti, è un organo generato dall'epifisi, paragonabile a un occhio vero e proprio e presente in certe antichissime razze di rettili. Quella che si risveglia nello sguardo di Maximilien è dunque una specie di latenza bestiale e primordiale, che somma in sé la velocità e l'indifferenza del predatore. Puntualmente, in questo modo di vedere si rispecchia il modo di raccontare, un modo in cui ogni criterio di rappresentazione finisce per assoggettarsi alle necessità dettate dalla paura, dal desiderio, dal bisogno. Maximilien è dotato di un occhio-diaframma, una finestra che mette in relazione l'interno con l'esterno, la vita nuda e la Storia, il sintomo e il paesaggio, tutto accomunando e rendendo indistinto nelle macabre tinte di un orrore irrimediabile. E questa vista ulteriore è anche, dalla prospettiva della tecnica romanzesca, uno straordinario punto di vista, che struttura alla sua maniera la vastissima architettura dell'intreccio, quel suo afflato epico così intimamente corrotto, così sgradevole, così privo di onore e compassione che anche la geografia vi appare come una ulteriore patologia. [...] Se in questo libro è implicita una qualche forma di intento pedagogico, esso sembra consistere nella constatazione per cui più ci addentriamo in un mondo che siamo costretti a riconoscere come il nostro stesso mondo, più desideriamo che esso non sia mai esistito, non sia mai stato creato. Condurci fin qua non è impresa di poco conto per uno scrittore. E fermo restando il fatto che si farà sempre in tempo a cercare i peli nell'uovo di un libro così ambizioso e generoso, con altrettanta intemperanza, e correndo i rischi che sempre ci impongono le opere dei nostri contemporanei, dirò che mi sembra del tutto lecito riconoscere nelle Benevole il timbro e la necessità di un capolavoro. Al di là degli eccessi di erudizione (ragazzi, è pur sempre una delle spesso illeggibili pagine culturali de il manifesto - che peraltro non sfugge alla logica "parcondicista" di affiancare a questa recensione entusiasta una stroncatura), sono sostanzailmente d'accordo con questa analisi. Quindi, non aggiungerò altro per dare spazioa a qualche pagina del libro. Cominciamo dall'incipit (tutto il primo capitolo, Toccata, meriterebbe di essere citato): Fratelli umani, lasciate che vi racconti com'è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l'assicuro. Rischia di essere un po' lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po' di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda. Non dovete credere che cerchi di convincervi di qualcosa; in fondo, come la pensate è affar vostro. Se mi sono deciso a scrivere, dopo tutti questi anni, è per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi. A lungo uno striscia su questa terra come un bruco, nell' attesa della diafana e splendida farfalla che porta in sé. E poi il tempo passa, la ninfosi non arriva, rimani larva, desolante constatazione, ma che farci? Certo, il suicidio resta un' opzione. Ma per la verità , il suicidio mi tenta poco. Ci ho pensato molto, ovviamente; e se dovessi ricorrervi, ecco come farei: mi piazzerei una bomba a mano proprio sul cuore e me ne andrei in un violento scoppio di gioia. Una piccola bomba a mano rotonda a cui toglierei con delicatezza la sicura prima di rilasciare la linguetta, sorridendo al lieve rumore metallico della molla, l'ultimo che sentirei, oltre ai battiti del mio cuore nelle orecchie. E poi, finalmente, la felicità , o perlomeno la pace, e le pareti dello studio addobbate di brandelli di carne. Toccherà alle domestiche pulire, sono pagate per questo, affari loro. Ma come ho detto, il suicidio non mi tenta. Non so perché, del resto, un vecchio residuo di morale filosofica, forse, che mi fa dire che in fondo non siamo qui per divertirci. Per far che, allora? Non ne ho idea, per durare, probabilmente, per ammazzare il tempo prima che lui ammazzi noi. E in tal caso, come occupazione, a tempo perso, scrivere vale come qualsiasi altra (p. 5). Un incidente di poco conto illuminò d'un tratto quelle crepe che andavano allargandosi. Nel grande parco innevato, dietro la statua di Sevcenko, portavano alla forca una giovane partigiana. Si stava radunando una folla di Tedeschi: Landser della Wehrmacht e Orpo, ma anche uomini dell'organizzazione Todt, Goldfasanen dell'Ostministerium, piloti della Luftwaffe. Era una ragazza piuttosto magra, con un viso alterato dall'isteria, incorniciato dai folti capelli neri, tagliati corti, molto alla buona, come con le cesoie. Un ufficiale le legò le mani, la mise sotto la forca e le passò la corda al collo. Allora i soldati e gli ufficiali presenti le sfilarono davanti e la baciarono sulla bocca a uno a uno. Lei rimaneva in silenzio, tenendo gli occhi aperti. Alcuni la baciavano affettuosamente, quasi castamente, come scolaretti; altri le tenevano la testa con entrambe le mani per aprirle a forza le labbra. Quando fu il mio turno, mi guardò, uno sguardo chiaro e luminoso, lavato da ogni cosa, e vidi che lei, lei capiva tutto, sapeva tutto, e di fronte a quel sapere così puro esplosi in fiamme. I miei vestiti crepitavano, la pelle del ventre si spaccava, il grasso sfrigolava, il fuoco mi ruggiva nelle orbite e nella bocca e ripuliva l'interno del cranio. La vampata era cosi intensa che lei dovette distogliere il capo. lo mi calcinai, i miei resti si trasformavano in statua di sale; dei pezzi, raffreddatisi in fretta, si staccavano, prima una spalla, poi una mano, poi metà della testa. Infine crollai completamente ai suoi piedi e il vento spazzò via quel mucchio di sale e lo disperse. Già si faceva avanti l'ufficiale successivo, e quando furono passati tutti, la impiccarono. Riflettei per giorni su quella strana scena; ma la riflessione si ergeva di fronte a me come uno specchio, e mi rimandava sempre soltanto la mia immagine, capovolta, certo, ma fedele. Anche il corpo di quella ragazza era per me uno specchio. La corda si era rotta o era stata tagliata, e lei giaceva nella neve del giardino dei Sindacati, con la nuca spezzata, le labbra gonfie, un seno nudo rosicchiato dai cani. La sua capigliatura ricciuta le formava una cresta da medusa intorno al capo e mi sembrava favolosamente bella, insediata nella morte come un idolo, Nostra Signora delle Nevi. Qualunque itinerario scegliessi per andare dall'albergo ai nostri uffici, la trovavo sempre sdraiata sulla mia strada, una domanda ostinata, ottusa, che mi gettava in un labirinto di vane speculazioni e mi faceva perdere il controllo. Durò per settimane (p. 175). Penso che possa bastare. Ci sono molto pagine come questa, intollerabili e memorabili. Alcune sembrano avere una vita a sé, come quella del vecchio ebreo che ha visto il luogo dove dovrà morire... Leggetelo da soli. Un'idea dell'affascinante mistura di fredda osservazione e di delirio che percorre il romanzo penso di avervela data
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