CianBellano ha scritto:Per me poteva essere un dignitosissimo cortometraggio.
La pur validissima atmosfera creata, l'esasperante inespressivita', la ripetitivita' e la lentezza trasmettono, anche piu' del dovuto, cio' che l'autore voleva dirci.
Fai un cortometraggio o in due ore e mezza qualcuno, quel cavallo, se lo deve mangiare davanti alla telecamera. Tutto.
Tendo ad apprezzare il cinema in ogni sua forma, qualunque ritmo e sfumatura decida di assumere per entrare negli occhi, o anche piu' in profondita', dello spettatore. Ma se per narrare quanto si e' depressi e disillusi con il mondo devi mettere insieme questa roba per tutto questo tempo, A ME E' NON PIACIUTO.
Bon, Cian.
Anch'io m'aspettavo che qualcuno si mangiasse il cavallo. O che il cavallo si mangiasse qualcuno. O che il pozzo si mangiasse la ragazza. O che gli zingari si mangiassero la ragazza. O che la ragazza si mangiasse gli zingari.
Perché?
Perché abbiamo abitudini.
Ma questo, vivaddio, è un altro cinema (quelli che vogliono stupire dicono che è
un cinema altro 
).
Ed io mi sono davvero goduto questa pellicola lenta lenta d'immagini bellissime. Che non si piega alle convenzionali (e, appunto, abitudinarie) visioni dello spettatore.
Erano NECESSARIE quelle due ore e passa (iI cortometraggio, per fare una citazione musicale, ci avrebbe probabilmente reso qualcosa dal sapore
antico e favolistico).
Perché quella scarna e ripetitiva quotidianità, che non ci appartiene, che non ci pertiene (e, quindi, rara e dirompente), entrasse nelle nostre pigrissime teste.
Se il buon Béla ci avesse mostrato soltanto monologhi alcolici o un cavallo che fa di conto, avrebbe snaturato quella cruda e lineare realtà, quella desolazione.
Noi siamo complici di un cinema fatto quasi esclusivamente di sublimazioni. Siamo complici di un best of. Ed è naturale. Mica ci viene mostrato il taglio delle unghie di un piede, se poco funzionale alla narrazione.
Ma di una terra desolata (cit.

) cosa vuoi raccontare?
Settimane or sono, mi son rivisto un semi-capolavoro. "Il buono, il brutto e il cattivo".
Ebbene, notavo come, nonostante una sceneggiatura irripetibile, tutto fosse costruito, inverosimile e pur magnifico.
Vicino alla tomba di Arch Stanton, la tomba dell'Unknown (quella del tessoro), c'è l'unico albero del cimitero. Che, guarda caso, è l'albero dove finisce impiccato Tuco-Wallach (che poi, da 300 metri, e mi tengo basso, viene salvato dal biondo Eastwood che spara alla fune). Tutto ciò evita a Leone inutili e dannosi movimenti di camera, ovviamente. Sono gli artifici soliti, veniali e
disonesti di un ottimo regista.
Il buono-biondo-Eastwood (continuando a parlare d’inverosimiglianza), del resto, viene salvato in un paio di circostanze altrettanto miracolose. Quando Tuco gli fa mettere il cappio al collo (da una cannonata che disintegra ogni cosa intorno, tranne i nostri eroi). Quando lo stesso Tuco, lo trascina nel deserto (dall'arrembante carrozza senza cocchiere, con dentro Bill Carson: to', proprio lui). E, cazzo, potrei andare avanti per un po'.
Va bene, va bene. Vivaviva.
Ma viva pure Béla Tarr. Che fa realismo estremo (e simbolico).
Tanto estremo da farti entrare nella scena, una scena senza demiurghi.
(Senza l'ironia amara, salvifica e onnipresente di un Kaurismäki, parlando di
cinema di povertà).
Io ero dentro quelle terribili ristrettezze (dire straits

).
Ero la mano che vestiva. Ero i capelli brutalizzati dal vento.
E la parabola (narrazione e figura geometrico-metaforica) di padre e figlia mi ha fatto vergognare delle mie pretese.
Quelle di uno smodato consumista di 'sto par di coglioni.
Niente sogni, nessun miracolo.
Quando finisce l'acqua nel pozzo, finisce la vita.
Grazie, Béla.
E grazie Cian.