La libertà di parola è, nel mondo moderno, considerata un concetto basilare nelle democrazie liberali. Il diritto alla libertà di parola non è tuttavia da considerarsi illimitato: i governi possono, sotto l'aiuto delle Nazioni Unite e dei Paesi che vi prendono parte, decidere di limitare particolari forme di espressione, come per esempio l'incitamento all'odio razziale, nazionale o religioso, oppure l'appello alla violenza contro un individuo o una comunità, che anche nel diritto italiano costituiscono reato.
Secondo il diritto internazionale, le limitazioni alla libertà di parola devono seguire tre condizioni: devono essere specificate dalla legge, devono seguire un ordine riconosciuto come legittimo, ed essere necessarie (ovvero proporzionate) al raggiungimento di quello scopo.
Storia
L'origine del concetto e della pratica della libertà di parola risale all'antica Grecia, in particolare nelle polis con regime democratico, dove veniva chiamata col termine parresia, la facoltà che i cittadini avevano di esprimere la loro opinione liberamente durante le assemblee pubbliche che si svolgevano nell'agorà. Il termine compare per la prima volta nel tragediografo greco Euripide nel V secolo a.C. e ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo d.C., e per l' ultima volta in Giovanni Crisostomo.
Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorreva "dire tutto" ciò che si aveva in mente. La stessa etimologia della parola parresia è quello attribuito a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si supponeva che non ci fosse differenza tra ciò che uno pensava e ciò che diceva.
Il filosofo greco Platone distingue due forme di parresia: una parresia falsa, da un lato; dall'altro, una parresia veritiera, sapiente e costruttiva.
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